La maternità non è un prodotto pre-confezionato, uguale per tutte le donne. La maternità non è un momento definibile. Al contrario, è quanto di più inedito ci sia, “l’unica esperienza della vita dalla quale non si torna indietro” secondo Monica Lanfranco, autrice di “Parole madri. Ritratti di femministe: narrazioni e visioni del materno” (Edizioni Marea), il libro che domani alle 17 presenterà alla Biblioteca Trisi di Lugo (piazza Trisi 19). C’è una foto, nelle prime pagine del volume: quella della giornalista e blogger (reduce dal libro e dalla pièce teatrale “Uomini che (odiano) amano le donne”) con i suoi figli ancora piccoli. Quei figli che oggi hanno 27 e 22 anni e che mai le hanno fatto cambiare idea rispetto al fatto che si può essere pienamente mamme e pienamente femministe insieme.
Monica, raccogliendo le testimonianze di alcune femministe autorevoli rispetto all’esperienza della maternità, a chi voleva e vuole rivolgersi?
“Alle giovani d’oggi, per le quali spero che la maternità sia vissuta come una scelta, una sceta di responsabilità e non come conseguenza di una pressione sociale o di una volontà di completezza. Nel 1990 avevo 29 anni, mio figlio sgambettava nel box e io correggevo le bozze del libro ‘Parole per giovani donne’. Ero un’attivista da poco e chiedevo a donne più adulte e autorevoli di me come si vedevano rispetto alle più giovani, usando il paradigma madri-sorelle. Trent’anni dopo, sono passata dall’altra parte”.
Perché il tema della maternità?
“Perché è un tema scomodo, che continua a dividere le donne, che ferisce, fa male, che non unisce come spesso si dice. Perché è un argomento ambivalente: fa rima con meraviglia, da un lato, e con prigione, dall’altro. Perché dopo la maternità non si è più quelle di prima, perché si nasce madri, insieme ai propri figli. Perché la maternità è diversa per tutte, è diversa anche da figlio a figlio, persino se si hanno due gemelli. E dire il contrario è essere falsi”.
Che ricordi ha, del suo diventare madre?
“Ricordo lo straniamento. Fino alla pre-adolescenza, quando qualcuno si riferiva a me parlando del materno, rimanevo perplessa, come se non c’entrassi. Non me ne capacitavo: ma parlano di me? Ho impiegato anni ad avere una piena consapevolezza di tutto, a mettere insieme il senso animalesco e al contempo magico dell’essere mamma. Una volta, con il neonato nella carrozzina, accompagnai un’amica quarantenne da sua madre. Quella donna parlava della figlia, la mia amica, come io parlavo del mio piccolo. Rimasi sbalordita: per le mamme, i figli restano sempre un po’ bambini”.
Quanto è distante la nostra cultura da tutta questa anti-retorica?
“Anni luce. Con i figli stabiliamo un legame, che è una parola ambigua. Il legame ti intrappola ma allo stesso tempo ti collega all’interno di un rapporto unico, non riproducibile e non ripetibile. Ma la cultura dominante continua a proporci stereotipi e semplificazioni. In questo modo, non ci viene data la possibilità di prenderci una responsabilità seria e cosciente rispetto alla scelta della genitorialità, che dovrebbe diventare collettiva, senza che la società continui a infiocchettarcela. Bisognerebbe essere preparati a quel salto nel vuoto che è diventare madri. Un lavoro importante sarebbe da fare nelle scuole”.
Lei, madre di due maschi, ha sentito di avere una responsabilità in più?
“Sì, quella di crescere due figli che possano essere, nella vita, compagni delle donne e non nemici. Che possano empatizzare con loro”.
E sul tabù della non maternità, quanta strada c’è da fare?
“Tantissima. Le stesse madri hanno bisogno delle donne che non sono madri per recuperare una distanza riflessiva. Nella nostra lingua non esiste una parola che indichi chi non ha figli. E questo ne testimonia l’invisibilità”.
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