L’Alzheimer a 43 anni e la dura battaglia di una moglie caregiver: “Noi, soli e abbandonati”

C’è un tempo piccolo per dire grazie, per chiedere scusa, per essere felici. Un tempo che, prima della malattia, pensiamo sia dilatato e finisca dove vogliamo noi. Lo sa bene Michela Morutto, 48 anni, veneta, mamma di due bambini di 11 e 7, Mattia e Andrea, e moglie di Paolo Piccoli, che a soli 43 anni ha avuto una diagnosi atroce: Alzheimer precoce in forma aggressiva. Parole dure, che nell’immaginario vengono associate alle persone anziane, ma che nella vita della sua famiglia sono arrivate quando c’erano ancora i pannolini del bimbo più piccolo da cambiare.

Le vicende di Michela e di Paolo arriveranno sabato 12 settembre alle 16 a Cesenatico, nell’ambito dell’Alzheimer Fest, grazie a Serenella Antoniazzi, la scrittrice che ha raccolto la loro storia nel libro “Un tempo piccolo. Continuare a essere famiglia con l’Alzheimer precoce” (Gemma Edizioni): “Tutto è iniziato – spiega l’autrice – quando Michela mi ha chiesto l’amicizia su Facebook e ho iniziato a leggere i suoi post pieni di rabbia e di forza, che però non nominavano la malattia in modo diretto. Un giorno ho preso coraggio, chiedendole in privato quale brutto momento stesse passando. Lei mi ha spiegato la battaglia che stava combattendo non solo contro la malattia del marito ma contro il vuoto che sentiva attorno: la mancanza di sostegno, di una rete. Una mattina li ho incontrati per un caffè e mi hanno chiesto se fossi disposta a scrivere la loro storia, di cui stavano accumulando foto e ricordi. All’inizio non ero convinta. Poi Michela, che aveva letto i miei due libri precedenti, mi ha detto che secondo lei sarebbe stato il caso di pubblicare un vero libro. Così ha iniziato a mandarmi dei vocali che ascoltavo in macchina, vocali che poco a poco mi hanno fatta entrare nella disperazione e nel dramma della sua vita di caregiver, così come nella storia d’amore che lei, per lasciarne una traccia, stava registrando per farla ascoltare a Paolo, che poco a poco perdeva memoria e lucidità. Così, durante il lockdown, ho iniziato a scrivere, supportata dalla mia coraggiosa casa editrice, facendomi testimone di un dolore immenso, di una battaglia che a volte sembra contro i mulini a vento”.

In questa operazione di ricostruzione e testimonianza, Serenella e Michela non hanno edulcorato il passato, le difficoltà di un matrimonio fatto anche di compromessi difficili e momenti no: “Non sarebbe stato giusto dipingere Paolo come il principe azzurro per rispetto della malattia, avrebbe fatto sentire chi legge stupido, avrebbe reso il tutto falso. In questo esporsi e metterci la faccia di Paolo e Michela, la scelta è stata quella di raccontare come una malattia come l’Alzheimer possa arrivare, all’improvviso, a sconvolgere equilibri già difficili, puntando l’attenzione non solo sulla sofferenza di chi la vive sulla propria pelle ma anche di chi sta intorno”.

Per Serenella Antoniazzi, che viene da anni di dolore personale in parte raccontati nel libro “Io non voglio fallire. Un’imprenditrice in lotta per salvare la propria azienda” (l’avevamo intervistata qui), la storia di Michela e Paolo non è arrivata per caso: “Loro mi insegnano ogni giorno ad amare, ad apprezzare quello che ho, a rischiare anche se ho paura, a considerare che non c’è sempre altro tempo davanti per fare le cose che vogliamo”.

E lo sa bene Michela, che oggi ha un marito ricoverato e due figli da crescere senza una rete: “Sì, ci sono i nonni settantenni. Ma qui c’è una famiglia da portare avanti con il mio stipendio, visto che la pensione provvisoria di Paolo serve a pagare le spese per lui. Ci sono i bambini da seguire, da portare a fare sport. Ma i caregiver come me sono lasciati soli, a se stessi. Io sono ancora giovane, sono una donna. Non mi vergogno a dire che posso anche avere bisogno, ogni tanto, di farmi una serata con le amiche, non solo di alternarmi tra la casa e un lavoro a tempo pieno. Non voglio certo fare una vita mondana, dico solo che anche chi si prende cura di chi sta male deve essere aiutato, che certe malattie dilaniano le famiglie, che si trovano a dover combattere per un minimo di diritti. Io ho lottato per la 104, per l’invalidità. E vivo nella paura, oltretutto, che ai miei bambini possa succedere un giorno quello che è capitato al padre. La mia è una vita dura, durissima. Espormi ed esporre la mia famiglia, cosa che alcuni criticano, serve a questo: a richiamare attenzione verso aspetti ancora poco raccontati”.

Michela non ha problemi a dire che avrebbe preferito di gran lunga il cancro all’Alzheimer: “Non minimizzo la malattia ma in quel caso, almeno, una speranza c’è. I diritti, quando c’è un tumore, vengono garantiti. Qui no, la demenza può solo peggiorare, le aspettative di vita di mio marito sono terribili. E chi sta intorno perde la dignità”.

 

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