Stefania: “La carrozzina, i miei tre figli e i limiti che non mi sono mai posta”

Negli Stati Uniti, dove è stata per sei mesi nel 2002 a lavorare, qualcuno l’ha definita “hot tempered”. Stefania Pasa, 45 anni, originaria di Genova ma residente da dieci anni a Santa Sofia, paese del compagno, non si è posta troppi limiti da quando, nel 1995, ha perso l’uso delle gambe senza avere, in realtà, una diagnosi precisa. Mamma di tre figli di 15, 13 e 10 anni, oggi lavora all’Ufficio stampa e relazioni col pubblico dell’Irst di Meldola, dove non si è presentata solo come categoria protetta ma con una laurea in Biologia e un dottorato di ricerca.

Stefania ha vent’anni, è al primo anno di università e fa un sacco di sport. Dopo la danza, praticata da piccola, si diletta con il nuoto, il tennis, la pallavolo: “Era Pasquetta, sono andata in spiaggia a giocare con i miei amici. Quando sono tornata a casa, ho sentito un grande formicolio ai piedi. Quella notte sono arrivati anche forti dolori alla schiena, da non riuscire a dormire. Mia madre allora mi ha portata in pronto soccorso, dove è iniziata la mia epopea”. Per quanto Stefania non riesca nemmeno a piegarsi per allacciarsi le scarpe, la risonanza alla parte bassa della colonna non fa emergere nulla: “Mi dissero che era una sciatalgia bilaterale, che poi ho scoperto non esistere nemmeno. Mi hanno dato degli antidolorifici, senza esito. Finché la notte prima del mio esame di matematica, mi si è bloccata persino la vescica. Si pensava a un’infezione alle vie urinarie ma io non stavo più in piedi: all’università per l’appello sono arrivata sorretta dai miei genitori, poi ho sceso le scale direttamente sul sedere”. Con il ponte del 25 aprile e primo maggio di mezzo e i medici che minimizzano, il tempo passa: “Finché ho sentito un neurofisiologo, che mi ha detto di correre immediatamente in pronto soccorso, dove comunque ero già stata, perché alla mia età quei sintomi non erano normali. Così mi hanno fatto un’altra risonanza magnetica, questa volta completa, scoprendo una macchia dalla vertebra T8 alla vertebra T12: “Si paventava un tumore, fatto sta che sono stata ricoverata in neurochirurgia al San Martino. Quando ho iniziato a non sentire più nulla dall’ombelico in giù, hanno deciso di operarmi: nove ore sotto i ferri durante le quali, in sostanza, mi hanno aperta e richiusa. Il tumore non c’era, pare che si fosse rotta una vena nel midollo spinale e che nell’attesa di capire che cosa stesse succedendo, il midollo avesse sofferto di ipossia, causandomi una lesione completa”.

Oggi che lo racconta, Stefania è convinta di essere avvezza alle esperienze particolari: “A 11 anni, dopo un tuffo dagli scogli con gli amici, una medusa mi punse in bocca, per fortuna avevo maschera e boccaglio. A 14 mi venne l’osteomielite a una gamba, costringendomi a un anno senza sport. Chiaro, non è stato semplice abituarmi alla vita in carrozzina. Ero giovane, avevo appena preso la patente, mi avevano regalato il motorino, ero all’inizio dell’Università. E mi sono ritrovata senza nemmeno la speranza di poter recuperare in parte la compromissione che avevo subito, ad aspettare che si liberasse un posto in un centro riabilitativo“. Mancandone, allora, uno in Liguria, Stefania finisce a Villanova sull’Arda, in provincia di Piacenza: “Sono rimasta lì otto mesi, durante i quali ho dovuto imparare a fare tutto daccapo. La cosa più dura è stata rinunciare a ballare e in generale a fare sport: sono cresciuta a Bogliasco, dove si allena la Sampdoria, un posto dove fin da piccola mio padre mi portava a camminare. Più avanti ho ripreso in parte l’attività facendo basket in carrozzina e anche un po’ di nuoto, prima di lesionarmi il tendine di una spalla, per cui sono in attesa dell’intervento”.

A Villanova succedono anche cose belle: “Ho continuato a studiare, addirittura il professore di Botanica si fece accompagnare da mio padre per farmi sostenere l’esame. Ma soprattutto conobbi il mio compagno e padre dei miei figli. Lui era più grave di me, aveva avuto un incidente in deltaplano, senza tuttavia subire lesioni complete. A volte, per scherzare, diciamo che in due non ne facciamo uno intero“. Dopo quattro anni di relazione a distanza tra Romagna e Liguria e il trasferimento a Genova, arrivano i tre bambini: “Avevo sempre desiderato di diventare mamma, anche perché sono abituata alle famiglie grandi. Mio padre, dalla prima moglie, ha avuto sette figli. Io sono figlia della seconda ma ho sempre condiviso molto con i miei fratelli e le mie sorelle. Non ho sentito la mia condizione come un impedimento, anzi ho fatto le mie battaglie, insistendo per partorire con cesareo ma senza anestesia per la seconda e la terza figlia, perché tanto non sento nulla in quella zona. E così è stato“. Le proprie lotte di civiltà Stefania le aveva fatte anche al dipartimento di farmacologia del National Institute of Health di Bethesda, nel Maryland: “Durante il dottorato ho passato un periodo in America, lavorando a un progetto che aveva l’obiettivo di creare mappe di interazione molecolare per capire i percorsi all’interno delle cellule tumorali. Un periodo bellissimo, nel quale ho vissuto a casa di una famiglia che aveva la casa attrezzata, visto che il figlio, anche lui in carrozzina, era andato via. Un periodo nel quale ho preteso di avere un contrassegno disabili e un parcheggio per me: avevo imbarcato la mia 600 dorata in Italia per portarla con me e l’avevo visto arrivare a Baltimora tra decine di Suv neri. Non potevo certo arrendermi così”.

E non si è arresa neanche quando, con tre figli piccoli, ha dovuto ingegnarsi per adattare lettini, fasciatoi e box alle sue esigenze: “Ho sempre studiato il modo per fare da sola. Fatto sta che i miei figli si sono sempre adattati: io non potevo tenerli molto in braccio e non l’hanno mai preteso, io non potevo insegnare loro a camminare e loro hanno iniziato a farlo quando si sono sentiti pronti. E nel momento in cui sono diventati un po’ più grandi, hanno cominciato a essere di grande aiuto, salendo sulla carrozzina per prendere le cose negli scaffali più in alto, al supermercato. Per loro questa è la normalità, io e il mio compagno abbiamo sempre fatto il possibile per non far sentire loro alcuna mancanza, consapevoli dei nostri limiti. A volte si pensa che i bambini non ce la possano fare ma in realtà sono pieni di risorse”. 

Non a caso, oltre ad avere sempre viaggiato sia in Italia che all’estero, in macchina, i tre bambini di Stefania si sono adattati anche al trasferimento in Romagna, dieci anni fa: “Siamo venuti qui perché, grazie ai miei suoceri, avevamo la possibilità di avere una casa più grande, a piano terra. Ricordo di essere andata al colloquio con il professore Dino Amadori, da poco scomparso, con Amelia, che era piccolissima. Stavo allattando, non potevo fare altrimenti”. 

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