Tonino Urgesi, marito e padre: “Vivo nella disabilità. Ma non rinuncio alla sessualità”

“Abbiamo diritto alla scuola, al cibo, alla vita. Ma non credo che quello alla sessualità possa essere considerato un diritto”. Tonino Urgesi è un uomo, un padre, un marito. Ma è anche colui che sta cercando di diffondere una nuova pedagogia della disabilità dove al centro c’è un doppio concetto: il disabile educa la società e la società educa alla disabilità. Solo così, secondo lui, anche chi è appunto definito disabile – come lui stesso – può incontrare l’altro e vivere l’affettività.

Urgesi vive a Varese ma con la Romagna ha un legame molto forte, visto che ha passato vent’anni sulle colline di Cesena, nella comunità di accoglienza di don Pasquale Gentili: “Un’esperienza che mi ha fatto capire che siamo tutti persone, al di là della situazione in cui siamo. Io, per esempio, non sono un disabile. Sono una persona che vive nella disabilità. Questo cambio di prospettiva mi ha consentito di iniziare a vivere, di uscire, incontrare la gente”.

E di conoscere anche sua moglie, quando aveva già quarant’anni: “Lei ne aveva qualcuno di meno. Sono stato fortunato perché ha capito che doveva valutare il mio vissuto, la mia personalità. Non certo la disabilità”. Ed è proprio questo bisogno di incontri, sguardi, pensieri, parole e carezze – ovvero tutto ciò che ricade sotto il concetto di sessualità – il leimotiv del ragionamento di Urgesi: “Quando si tira in ballo la figura dell’assistente sessuale per persone con disabilità ci si dimentica, secondo me, che non è solo una questione di corpi, eccitazione, masturbazione. Coloro che definiamo disabili hanno bisogno di sessualità o di sesso? Direi che dipende, direi che è soggettivo. Un assistente potrebbe accarezzarmi, toccarmi ma non farmi arrivare all’eiaculazione. E quindi?“.

Per Urgesi, dunque, la battaglia di Maximiliano Ulivieri per formare gli assistenti sessuali va capita meglio: “Io vorrei sapere assistente fino a dove, fino a cosa. E mi chiedo: ora si inizia a parlare di assistenza all’affettività ed emotività. Ma davvero c’è una figura professionale per farlo? Se il disabile non si sente etichettato, se vive nel mondo, quell’assistenza alle emozioni non potrebbe essere appannaggio di chiunque, o meglio di chi la persona con disabilità sceglie di fare entrare nella propria vita?“.

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