Anche negli sport più praticati dalle atlete, come la pallavolo, le donne sono poco presenti a livello dirigenziale. Nei giornali e in tv, a parità di successo, gli atleti uomini sono sempre più raccontati. E i genitori come si comportano? Se la propria bambina vuole provare a giocare a rugby o il proprio bambino vuole iscriversi a danza, a volte oppongono resistenza fino a chiedersi: “Ma dove ho sbagliato?”. Francesca Vitali, psicologa dello sport e docente all’Università di Verona, sabato 18 novembre dalle 9 alle 13,30 sarà a Bologna (Palazzo del Coni, via Trattati Comunitari 7) al seminario “Educare all’anti-violenza di genere nello sport” inserito all’interno del Festival “La violenza illustrata”.
Vitali, che di tematiche di genere si occupa da dieci anni (ha anche scritto il libro “I luoghi della partecipazione. Una ricerca su donne, lavoro e politica” per Franco Angeli), snocciola alcuni dati ufficiali di Istat-Coni: “In Italia sono attivamente impegnati nello sport circa 4 milioni di persone tra i 6 e i 75 anni. Per ogni categoria di età, sono sempre gli uomini a rappresentare la percentuale più alta in termini di partecipazione rispetto alle coetanee. Ma anche nelle discipline dove le atlete donne sono in maggioranza (ad esempio, il volley, alcune specialità della ginnastica), la stessa cospicua presenza femminile non si registra nei comparti dirigenziali medio-alti”. Non è un caso se su 45 federazioni sportive, solo una (la Federazione sport equestre) ha avuto una presidentessa e solo un’altra (la Federazione ciclistica italiana) ha avuto una vicepresidentessa.
E i motivi sono presto detti: “Siamo figli di una cultura che ha visto fin dall’inizio del movimento olimpico moderno la presenza delle donne nello sport come problematica. Basti pensare che alla prima edizione dei Giochi olimpici estivi moderni, ad Atene nel 1896, alle donne era preclusa la partecipazione. Lo sport femminile veniva ritenuto allora poco interessante e sbagliato. Nel 1900, però, alla seconda edizione dell’Olimpiade moderna di Parigi di donne ne parteciparono 22. L’apertura al genere, dunque, anche se non immediata ci fu quasi subito. Ma ancora oggi assistiamo ad uno sguardo non sempre privo di stereotipi sulle donne atlete. Per alcuni anni è andato avanti un filone di ricerca che confrontava le prestazioni maschili e femminili mettendo in evidenza le donne come meno forti, meno veloci, meno resistenti. Questo approccio non porta da nessuna parte, perché quando parliamo di studi di genere nello sport parliamo delle opportunità e dell’equità di trattamento fra atleti e atleti e non necessariamente di performance. Senza contare che, storicamente, le atlete hanno ricevuto una più ridotta attenzione da parte dei media rispetto agli atleti anche degli stessi sport. Le atlete donne oggi come un tempo sono spesso meno pagate rispetto agli atleti uomini, che possono essere professionisti nello sport: opportunità, questa, nel 2017 ancora preclusa alle atlete donne”.
Il lato positivo è che, da diciassette anni, Assist (Associazione nazionale atlete) si batte per una parità di possibilità e di dignità delle atlete donne rispetto agli atleti uomini nel mondo sportivo: “Tra i risultati ottenuti, c’è la presa di posizione positiva della Federazione di atletica leggera (Fidal) che si impegnerà ad organizzare gare in cui saranno previsti gli stessi montepremi fra atleti e atlete (finora non sempre era così). Ma ricordiamo che ancora oggi, se gli sport praticabili a livello professionistico per gli atleti uomini sono quattro (calcio, ciclismo, pugilato e pallacanestro), per le donne sono ancora zero. Le donne, insomma, faticano molto di più a fare dello sport il loro primo impegno lavorativo e professionistico. Un altro risultato importante ottenuto da Assist è la tutela della maternità per le atlete su cui si sta svolgendo proprio in questi giorni un dibattito parlamentare che speriamo culmini nel riconoscimento di questo diritto”.
E tutto questo si rispecchia nella presenza molto scarsa delle donne anche sulle panchine e nell’arbitraggio degli sport più praticati dagli atleti uomini, come il calcio o la pallacanestro. Con conseguenze sulle generazioni a venire: “Gli stereotipi di genere sono duri a morire. Se aggiungiamo che alcuni genitori, davanti alla curiosità dei figli per uno sport considerato appannaggio dell’altro genere, in alcuni casi non ne assecondano la motivazione, la frittata è fatta. I bambini sono aperti, non hanno preclusioni. Ma molto precocemente possono essere influenzati dagli adulti che in alcuni casi non alimentano legittime ambizioni”.
Qui avevamo intervistato Francesca Vitali sull’abbandono dello sport da parte dei giovani
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