Sport, troppi ragazzi abbandonano: “Colpa di genitori, insegnanti, allenatori”

“Non è vero che il secchione è una schiappa nell’attività fisica, non è vero che l’atleta è un somaro a scuola”. Il punto, semmai, è che allenatori e insegnanti dialogano poco. E che il triangolo docenti, società sportive e famiglie non viene quasi mai attivato in favore della crescita dei bambini e dei ragazzi. Lo dirà stamattina a Ravenna Francesca Vitali, presidente nazionale dell’Associazione italiana psicologia dello sport (A.I.P.S.) e docente all’Università di Verona, durante il seminario “Prevenzione dell’abbandono sportivo giovanile: ricadute applicative per allenatori ed educatori sportivi” organizzato dal Coni Point e inserito nel programma di “Sport in Darsena” (l’appuntamento è all’Autorità Portuale).
Francesca, quali sono i numeri del fenomeno dell’abbandono sportivo, in Italia?
“I dati del 2016 scorso dicono che negli ultimi dieci anni circa un ragazzo tra i 12 e 14 anni su dieci abbandona lo sport prematuramente, cioè prima di raggiungere il proprio potenziale. La media europea è dell’8%. Ma da noi il fenomeno è aggravato ancora di più dal fatto che la partecipazione giovanile alle attività sportive è più bassa rispetto ai Paesi vicini. Mentre nel resto d’Europa fanno sport nove ragazzi su dieci, da noi fanno sport sei ragazzi su dieci. Quando lasciano, non lo fanno per scegliere altre discipline ma per condurre una vita sedentaria”.
Ci sono differenze di genere e tra una disciplina e l’altra?
“No, la lieve differenza tra maschi e femmine (11 contro 9% come tasso di abbandono) è proporzionale alla loro presenza nello sport. I ragazzi fanno attività fisica più delle ragazze”.
Dove dovremmo andare a cercare le responsabilità?
“Chi ha fatto la fotografia dell’abbandono ha trovato ragioni superficiali: il poco tempo, la poca motivazione, la difficoltà di conciliare studio e sport. Ma i motivi sono più profondi e hanno a che fare con il valore stesso dello sport, che è poco compreso da insegnanti, allenatori e genitori. Ai ragazzi si chiede di vincere, di avere una prestazione eccellente. L’enfasi è sulla competizione, sul risultato, quando invece dovrebbe essere sul sostegno all’impegno. Così facendo, alla lunga i ragazzi mollano”.

Tutti coinvolti, dunque?
“Nel mondo degli adulti, sì. Le famiglie hanno spesso troppe aspettative rispetto ai risultati sportivi dei figli. In altri casi, vivono la palestra o la piscina al pari di un servizio di babysitteraggio. La scuola, dal canto suo, spesso non se ne occupa: quanti sono gli insegnanti che sanno che sport praticano i loro allievi? Quanti quelli che puniscono gli studenti atleti con un’interrogazione di lunedì mattina pur sapendo che hanno passato il fine settimana ad allenarsi o gareggiare? Senza contare che anche tra gli allenatori c’è chi spinge troppo sul risultato e poco sulla crescita psico-fisica dei ragazzi. Alcune società illuminate fanno firmare alle famiglie un patto sociale ma si tratta di esempi rari. Se Pierino gioca al limite del regolamento ma segna tanti punti e l’allenatore non lo sostituisce o se Pierino viene sostituito ma suo padre gli dice che l’allenatore ha fatto una cavolata a sostituirlo, come possiamo pensare di cambiare le cose?”.
Come potrebbero collaborare meglio gli insegnanti e gli allenatori?
“Innanzitutto capendo che nello sport si acquisiscono abilità trasferibili in altri ambiti della vita, come porsi un obiettivo o gestire le emozioni. E che chi fa sport ha capacità di apprendimento migliori rispetto a chi non lo pratica. Il movimento regolare produce connessioni sinapsiche migliori nei lobi frontali. I ragazzi che si muovono, dunque, studiano in tempi più brevi, organizzano con più efficacia il proprio tempo, conciliano e organizzano gli impegni con più facilità. Le doppie carriere, insomma, sono da sostenere”.
Esiste anche un problema di scarsa passione?
“Esiste nella misura in cui, ai ragazzi, entro i dodici anni non diamo l’opportunità di provare ogni anno una disciplina diversa. Per trovare la propria strada bisogna sbizzarrirsi più che si può sulla tavolozza motoria. Il Comune di Treviso ha sperimentato un bel progetto in questo senso, favorendo la mobilità da uno sport all’altro e quindi l’orientamento sportivo. Io vengo dal nuoto, so che dopo anni e anni a guardare mattonelle ci si può sentire frustrati. E magari credere che non esista nulla di diverso o più avvincente”.

 

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