Tra i figli di madri maltrattate che Francesca Pidone, coordinatrice del Telefono Donna della Casa della donna di Pisa, vede nel suo lavoro, c’è più di frequente il bambino “adultizzato”, quello cresciuto troppo in fretta, protettivo verso la mamma e che cerca di non dare guai. Si parla anche di questo nel libro “Amori violenti. Riconoscere, prevenire, contrastare la violenza sulle donne” (Mursia) che l’autrice presenterà domani 23 giugno alle 20 nell’ambito della “Notte delle Streghe” organizzata da Linea Rosa ai Giardini Pubblici di Ravenna (viale Santi Baldini).
Francesca, i figli aiutano le mamme a scappare, denunciare, rivolgersi a un centro anti-violenza o, al contrario, agiscono da deterrente?
“Per esperienza posso dire che le donne chiedono aiuto, spesso, grazie ai figli. O perché vedono in loro condotte aggressive simili a quelle agite dal padre e quindi si spaventano. O perché vengono spinte e stimolate direttamente dai figli, magari un po’ più grandi, a uscire dalla spirale di violenza. Non è vero, come spesso i grandi pensano, che i bambini non vedono: ci si trincera spesso dietro la giustificazione secondo cui i bimbi sono troppo piccoli per capire, o stavano dormendo, o erano fuori casa. Ma i bambini subiscono ogni conseguenza, seppure indiretta, della violenza. Anche il semplice fatto di tornare da scuola e trovare la casa in disordine perché sono stati lanciati oggetti, lascia in loro un segno”.
Le tipologie di bambini che descrivi sono tre: quelli impauriti, quelli arrabbiati, quelli modello. L’ultimo è il più diffuso?
“Decisamente sì. Vedo molte volte bimbi molto bravi a scuola, che cercano di consolare la madre spiegandole che provvederanno a lei, appena potranno, anche economicamente. Sono in genere fratelli o sorelle maggiori, iperprotettivi verso gli altri membri della famiglia ospiti della casa rifugio. Poi non nascondo che ci sono anche bambini arrabbiati e bambine, soprattutto, molto introverse e chiuse”.
Alcuni si colpevolizzano?
“Sì, capita. Così come a volte tendono a fare le loro mamme, si gettano addosso la responsabilità di quello che succede in casa, pensando di avere sbagliato qualcosa. In generale, in ogni casa, i bambini che vedono camminano sulle uova, nel senso che agiscono con una estrema cautela. Su di loro, in ogni caso, andrebbe scritto un libro a sé: per età, genere e altri fattori, le reazioni e i comportamenti sono i più disparati”.
Un uomo che maltratta è solo tre volte su dieci figlio di un padre a sua volta violento. C’è speranza, quindi, che i figli delle mamme abusate o maltrattate non ripetano, da grandi, quei modelli?
“Sì, soprattutto se sono abituati a vedere e frequentare una figura maschile alternativa e positiva. Ricordo tre fratellini che, nonostante vivessero in casa rifugio, avevano come riferimento uno zio molto presente, con caratteristiche di cura poco frequenti in un uomo. Avere assistito a violenza è un fattore di rischio ma se altre persone riescono a compensare, si può fare molta prevenzione”.
Si parla ancora poco, in Italia, di violenza assistita?
“Il primo convegno scientifico si è tenuto tredici anni fa. Nei tribunali se ne comincia a parlare ma lo sguardo non è ancora a 360 gradi. Al centro penso che debba esserci sempre il bambino con i suoi diritti. E con il maschile, i bambini, devono avere a che fare: ma non è detto che il maschile debba essere rappresentato da padre biologico. Bisogna rispettare i tempi dei più piccoli”.
Che cosa ne pensa dei centri per uomini maltrattanti che si stanno diffondendo?
“La mia opinione è anche quella di giudice onorario del Tribunale di sorveglianza: i centri possono aiutare a ridurre il fenomeno della violenza fisica ma quella psicologica e una certa idea della donna fissa in un ruolo restano. Il problema è molto più ampio rispetto alla sola gestione della rabbia o degli impulsi. E non si sta ancora facendo un lavoro sulla genitorialità: l’uomo maltrattante spesso è anche un padre, non va dimenticato”.
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