Alle mamme disorientate davanti a una diagnosi che pare così schiacciante come quella dell’autismo, Claudia Navarini non direbbe affatto di avere per le mani la panacea. Però consiglierebbe di abbandonare lo stereotipo alla “Rain man” per calarsi nel mondo del proprio bambino, farlo proprio e lavorarci su. Per ottenere miglioramenti che all’inizio del percorso possono sembrare impossibili.
Claudia è un’infermiera professionale e dall’agosto dello scorso anno vive a Imola con il compagno e il figlio 18enne: “Da quando ha scoperto che ama suonare la tastiera, il suo rendimento scolastico è migliorato moltissimo, come se si fosse aperto un canale che per lui è fondamentale. Lo scorso anno vivevamo in Belgio, dove ha imparato il fiammingo. A livello scolastico, parla e scrive in cinque lingue”.
Claudia lo sa, che l’autismo è un mondo dalle mille sfumature (non a caso, oggi, si parla di disturbi dello spettro autistico). Ma è anche convinta che una mamma debba prendersi il tempo per stare con il proprio bambino, capirlo, entrare in relazione con lui: “Per mio figlio la diagnosi di autismo è arrivata tardissimo, a nove anni. Ma io, ovviamente, ero consapevole che mio figlio avesse dei problemi. Da piccolissimo rifiutava di stare in braccio, a due mesi soltanto puntava i piedi come per divincolarsi. La notte non dormiva mai. Ripeteva sempre gli stessi giochi. Si isolava. Anche quando i suoi coetanei non avevano più il pannolino, lui continuava a essere incontinente”.
Ma Claudia, già da quando il bambino era piccolissimo, si era fatta forza sul fatto che “il cervello è malleabile” e quindi, con una dose massiccia di pazienza, aveva capito che con il suo bambino era necessario lavorare sul contatto fisico: “Forzando la mano, visto che mio figlio non sembrava amare il contatto, avevo scoperto che i piedi erano un punto importante per lui. Tramite il massaggio, per esempio, riuscivo a farlo dormire. E così mi inventavo giochi su giochi pur di attenuare la sua ipersensibilità sensoriale agli stimoli esterni. Un lavoro nel quale ero supportata da uno psicomotrocista molto competente, che per sette anni, una volta a settimana, veniva a casa”.
Per dedicarsi in pieno al figlio, Claudia usufruì dei famosi due anni della legge 104: “La mattina mandavo mio figlio al nido così da riuscirmi a riposare un po’. Il pomeriggio, invece, ero a sua completa disposizione. Cercavo di abituare mio figlio alle situazioni più diverse: lo portavo al cinema anche se aveva paura, in piscina anche se piangeva“. E se all’inizio, anche solo il contatto con la farina infastidiva tantissimo il bambino, Claudia insisteva per fargliela maneggiare, così da ridurre sempre di più quella sensazione sgradevole.
Un lavoro certosino, prolungato e insistente minato di sfide, delusioni ma a volte anche soddisfazioni: “Ho letto la storia di Cristina Caflish, che con sua figlia ha utilizzato un approccio simile al mio e mi si è accapponata la pelle. Sono metodi che restano nell’ombra ma di cui bisogna parlare. L’autismo è un calvario, io lo so. Ma è anche un viaggio affascinante. Senza ricorrere ai tranquillanti e senza sperare in chissà quale cura, si possono lo stesso ottenere, anche se con fatica, enormi risultati”.
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