La testimonianza di Giovanna: “Mia figlia, uccisa dal marito e dal processo”

per-non-dargliela-vinta-69774“Dal punto di vista penale, lui non avrebbe potuto prendere una condanna più lunga. Ma mia figlia non tornerà. E il suo nome è stato infangato”. Giovanna Ferrari lo chiama “lui”. Lui è Marco Manzini, una volta era come un figlio. Poi, l’11 febbraio del 2009, è diventato l’assassino di sua figlia Giulia Galiotto. Ammazzata due volte, secondo la madre: la prima dalle sassate in testa nel garage dei suoceri, a Sassuolo, la seconda dal processo. Giovanna è una donna forte, coraggiosa. Che ha scelto di raccontare la sua storia atroce per ridare a sua figlia un’immagine degna, per onorarne la memoria a suo parere brutalizzata dalle vicende giudiziarie. Giovanna presenterà il libro “Per non dargliela vinta” (Il Ciliegio edizioni) giovedì 22 maggio alle ore 20,30 a Ravenna (piazzetta Marsala) nell’ambito del festival “Donne in opera” organizzato dalla Cgil.
Giovanna, chi era Giulia?
“Una ragazza normale, estroversa e socievole, molto amata da tutti. Le donne come lei sono le vittime predilette dei narcisi perversi come suo marito. Perché sono più empatiche, più tolleranti. E sopportano violenze subdole”.
Di che tipo erano quelle subite da sua figlia?
“Psicologiche, sottili. Lo abbiamo scoperto solo dopo. Giulia non dava segni visibili che qualcosa, con lui, non andasse. Ci aveva parlato di una crisi, sì, ma solo poco tempo prima che venisse uccisa. Non avremmo mai immaginato quanto lui fosse un manipolatore”.
Violenze fisiche, secondo voi, lui non gliene infliggeva?
“No, Giulia non sarebbe stata zitta. Sapevamo che cercavano un figlio che però non arrivava. Lui, durante il processo, ha detto che i rapporti sessuali erano diventati un atto meccanico. Per questo le aveva chiesto di ricominciare a prendere la pillola: l’affossarsi di un sogno per lei, che amava tanto i bambini”.
“Lui” come ha giustificato il suo gesto?
“Per passare da innocente ne ha fatte di tutti i colori. All’inizio ha cercato di far credere che lei si fosse suicidata. Ci ha telefonato dopo averla uccisa, chiedendoci se sapevamo dove fosse. Ci ha mostrato un biglietto che lei aveva scritto anni e anni prima, per convincersi che l’ipotesi del suicidio fosse plausibile. Senza contare che dopo averla assassinata, ha caricato il cadavere in macchina e l’ha buttato nel fiume Secchia. Un delitto premeditato a tutti gli effetti, tanto è vero che lui le aveva dato appuntamento nel garage dei suoi genitori, facendole credere di volerle dare un regalo”.
Ma la premeditazione non è stata dimostrata…
“Segno che la giustizia, in Italia, non funziona. Il marito di Giulia si è appellato alla gelosia, al raptus, ha cercato di far credere che lei lo tradisse, quando invece è stato provato che l’amante l’avesse lui. La violenza di genere, l’ho imparato sulla pelle di mia figlia, non è un fatto privato, di coppia. Piuttosto, è culturale e sociale”.
Siamo ancora lontani dal farlo capire?
“Lontanissimi. Se l’uomo tradisce la moglie va bene, se la donna è sospettata di tradire il marito vengono giustificate tutte le nefandezze possibili. In un certo senso, durante il processo, è stato ribaltato il rapporto vittima-carnefice. La sentenza è contraddittoria: da un lato dice che non ci sono elementi sufficienti per dimostrare la premeditazione, dall’altro non gli vengono riconosciuti né il vizio di mente né le attenuanti generiche, e si sostiene la volontà, da parte sua, di uccidere Giulia in maniera violenta e crudele”.
Come proseguite la vostra battaglia?
“Abbiamo presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo perché ci siamo sentiti davvero usurpati come famiglia: la giustizia italiana pende a favore dei criminali. Nel frattempo, il libro mi ha permesso di incontrare tante donne vittime di violenza, tanti operatori. Spero, con la mia testimonianza, di aiutarne almeno qualcuna ad uscire dal silenzio. E di aver ridato a Giulia l’immagine che le apparteneva, quella di una bella persona, non bugiarda, leggera e inaffidabile come è stata decritta”.
Che cosa insegna, nel male, la sua vicenda?
“Che non si può continuare ad aspettare che ci scappi il morto per intervenire e mettere in salvo le donne. E che la violenza avviene nei contesti meno sospettabili: pensiamo sempre che a noi non possa succedere”.
In effetti, il marito di Giulia per voi era uno di casa…

“Lo conoscevamo da una vita, conobbe Giulia in un gruppo parrocchiale e restarono fidanzati per sette anni prima di sposarsi. Sembrava un ragazzo premuroso. Abbiamo capito chi è veramente da come si è comportato durante il processo. Non ha mai mostrato segnali di pentimento, continua a portare la maschera: ma adesso noi lo vediamo per quello che è veramente”.
E i vostri consuoceri?
“Hanno fatto di tutto per difenderlo, ritrattando anche sulla questione del sasso che era stato trovato nel loro garage. Dissero che era possibile eccome che ce ne fosse qualcuno, visto che lasciavano spesso la porta aperta. All’inizio, invece, avevano negato”.
“Per non dargliela vinta”: come è nato il titolo?
“Da una frase di lui durante il processo. Che mette in luce la volontà del maschio di prevaricare, di avere l’ultima parola, di avere ragione, di togliere alla donna il suo spazio di scelta autonoma”.

Giovanna Ferrari presenterà il libro insieme a Michele Poli, psicologo dello sportello Centro uomini maltrattanti di Ferrara; Cristina D’Aniello, sostituto procuratore di Ravenna; Alessandra Bagnara, presidente di Linea Rosa.

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