Carolina Bocca: “La dipendenza di mio figlio dalla droga, una palestra di vita”

“Sono sempre allerta ma con una serenità che definirei disarmante”. Carolina Bocca, milanese, l’11 marzo a Mezzano, a pochi chilometri da Ravenna, porterà la sua testimonianza di madre alle prese con la tossicodipendenza del figlio insieme alla Fondazione Pesciolino Rosso nata dall’esperienza di Gianpietro Ghidini, che nel 2013 ha perso il figlio Emanuele proprio a causa della droga. Carolina, che ha scritto i libri “Soffia forte il vento nel cuore di mio figlio” e “Senza pelle”, incontrerà alle 11 i ragazzi che frequentano la scuola media “Manara Valgimigli” e alle 20,15 tutti coloro che lo vorranno al Centro sociale “Il Salice” di via Enrico Malatesta. Il doppio evento è organizzato insieme all’A.s.d. Mezzano e al Comune di Ravenna.

Tutto inizia quando Sebastiano, il secondogenito di Carolina che oggi ha 21 anni, da ragazzino simpatico e solare diventa poco a poco, in terza media, molto trasgressivo e cupo: “Qualcosa non mi tornava. Sebbene il periodo dell’adolescenza non sia facile, mio figlio mi sembrava un po’ troppo sopra le righe. Cercavo di tranquillizzarmi facendo i conti con la mia ansia: anche io ho avuto un fratello che ha fatto uso di sostanze e il pensiero andava per forza di cose a parare lì. Fino a che, dopo essere stati richiamati dalla scuola, una mattina ho seguito Sebastiano, scoprendo che prima della campanella fumava le canne. Grazie a suo padre, il mio ex marito, siamo riusciti a entrare nel suo profilo Facebook, scoprendo che era entrato in un giro di spaccio“.

In quel momento, ai genitori di Sebastiano la soluzione più a portata di mano sembra quella di allontanarlo: “Abbiamo pensato di mandarlo a scuola in Inghilterra, un’opzione che lui ha accettato in modo passivo e che comunque, in cuor mio, significava anche togliermelo di torno. Sebastiano ha una sorella più grande, io nel frattempo mi ero risposata e avevo avuto altri due figli, di cui l’ultimo era piccolissimo. Sebastiano era fastidioso, pesante, ingombrante e irrispettoso. Tutti i discorsi e i pensieri ruotavano intorno a lui, i suoi fratelli venivano continuamente messi in secondo piano e non lo sopportavano più”. Ma dopo due anni in un college in Inghilterra, le cose peggiorano: “Non avevamo individuato il problema alla radice e il disagio di Sebastiano, che sedava e rabbia e paure con la droga, si era amplificato. Ci ha chiesto allora di tornare a casa e la scuola è stata ben felice di toglierselo di torno, perché era un elemento scomodo, un leader negativo”. Una volta in Italia il ragazzo si iscrive allo Scientifico e va a vivere con il padre, la nuova moglie e la loro bambina: “Nulla da fare, era sempre più magro, emaciato, fuori controllo ed evitante. Alla fine dell’anno scolastico l’ho incontrato davanti ai tabelloni dei voti trovandolo strafatto, triste, brutto e perso. Allora ho chiamato suo padre, dicendogli che avremmo dovuto fare qualcosa subito o lo avremmo perso”.

Nel giro di pochi giorni, alle sette di mattina, due operatori di una casa educativa entrano nell’abitazione del padre di Sebastiano per portarlo via e il ragazzo, dal quale i genitori si sarebbero aspettati opposizione e aggressività, rivolgendosi al papà gli dice testuali parole: “Allora ce li hai, i coglioni”. Per sette mesi nessuno lo vede né lo sente. Nel frattempo, Carolina e l’ex marito iniziano un percorso di supporto alla genitorialità: “Il giorno che lo hanno portato via non nego di essere entrata in bagno e di aver pianto come non mai, guardando la finestra e pensando di buttarmi giù. Il dolore è stato indescrivibile, la forza da tirare fuori immensa: in quel momento mi è passata davanti tutta la sua vita, da quando era nato, così come tutti gli errori che avrei potuto evitare e le cose che avrei potuto dire o fare ma non avevo detto o fatto“. Dopo un periodo di forte crisi e psicofarmaci, Carolina si rimbocca le maniche e si mette a scrivere: “Avevo cercato nelle biblioteche, nelle librerie e su Internet, senza trovare le indicazioni pratiche di cui avevo bisogno. Allora ho deciso di lasciare traccia, di scrivere la mia testimonianza per evitare che un giorno un’altra mamma si potesse trovare nella mia stessa situazione. Se io avevo strumenti culturali e possibilità economiche, mi dovevo pure ritenere fortunata. Pensavo alle tante donne che erano senza tutto questo ma dovevano affrontare la mia stessa battaglia”.

Dopo sette mesi, Carolina e il padre di Sebastiano lo incontrano, con l’invito dei terapisti a colmare nel figlio i buchi e i vuoti della storia della sua famiglia: “Nostro figlio non sapeva di noi, di come ci eravamo conosciuti e innamorati, delle relazioni che avevamo avuto con i nostri, di genitori, del momento in cui era nato e del perché ci eravamo separati. Quei pezzi mancanti nel suo mosaico di vita lo facevano arrabbiare tremendamente”. 

Dopo due anni, Sebastiano esce dalla comunità e va a vivere con il padre, che come ha finalmente il coraggio di ammettere gli mancava molto: “Il mio ex marito, dal canto suo, ha preso consapevolezza del fatto di essere stato fino ad allora piuttosto marginale nella sua vita. La scelta di non farlo vivere con me è stata consigliata dagli esperti e anche dettata dal rapporto conflittuale di Sebastiano con mio marito, un uomo che comunque ha fatto molto per starmi accanto in quella situazione, forse senza ricevere troppa gratitudine da parte mia”.

Oggi Carolina, a distanza di quasi quattro anni dalla fine del percorso di suo figlio, si descrive come una donna profondamente cambiata: “Si dice che chi passa dal vortice della droga debba rimanere in astinenza almeno dieci anni per esserne considerato fuori e che comunque resti un soggetto a rischio. Io oggi ho capito che quando succedono queste cose non c’è una causa, ce ne sono molte. E che ai figli va restituito il loro pezzetto di responsabilità, nel senso che la vita è la loro e noi genitori non possiamo avere il delirio di onnipotenza di voler risolvere tutto, perché possiamo arrivare solo fino a un certo punto“. Quando Sebastiano parla del suo passato, d’altro canto, ha gli occhi lucidi e chiede scusa per avere fatto soffrire la sua famiglia: “Mio figlio oggi è un ragazzo empatico, maturo. Ha una fidanzata, una casa, studia all’università. La comunità per lui è stata una palestra di vita anche per l’autonomia, così come lo è stata per me per capire che con i figli l’amore non basta, serve essere soprattutto degli educatori”.

Carolina, che nel frattempo ha venduto la sua azienda per rimettersi a studiare e diventare counselor sistemica familiare socio-costruzionista, in tre anni ha anche tenuto 450 incontri con Pesciolino Rosso: “Ogni volta che parlo davanti al pubblico il mio discorso, che non preparo mai prima, cambia. E quando finisco di parlare, non mi ricordo quello che ho detto. Ma quando sono sul palco, sento che in quel momento sono al posto giusto. E me lo confermano gli abbracci e i ‘grazie’ della gente. Il mio desiderio di essere utile si realizza così, mentre penso e ripenso a quanto sarebbe stato importante per me, all’epoca, incontrare una mamma Carolina per alleggerirmi dalla solitudine, dall’inadeguatezza, dal senso di colpa e dal giudizio degli altri”.

Dopo il primo libro, Carolina ha scritto “Senza pelle. La dolorosa gioia di esistere”, ispirato all’incontro con una ragazza di 19 anni, Isabel, bulimica e con tendenze all’automutilazione: “Nell’incontro con lei, nel cercare di capire che cosa c’era dietro al suo dolore, ho scoperto un grosso segreto della sua famiglia che ci ha portate a prenderci per mano e a fare un pezzo di strada insieme. Un percorso nel quale lei ha aiutato me a scoprire ferite antiche, quella di un’adolescente senza pelle, non vista”.

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