Ci sono segnali “incoraggianti”, come la richiesta di alcune scuole elementari di poter aderire ai progetti di educazione all’affettività e alla sessualità. Ma anche resistenze forti, come quelle di alcuni genitori, magari solo uno o due in una classe, che rischiano di mandare a monte l’adesione di una intera scuola. Silvana Borsari, coordinatrice dei consultori familiari della Regione Emilia-Romagna, fa il punto sul tema dopo tre giorni dal convegno “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore” che ha analizzato, tra le altre cose, lo stato dell’arte di “W l’amore”, un progetto rivolto alla pre-adolescenza tanto innovativo quanto contestato.
Dottoressa, quali sono stati in questi cinque anni, da quando “W l’amore è nato”, i principali vantaggi del progetto?
“Senz’altro l’aver prodotto dei materiali omogenei e condivisi e l’aver coinvolto insegnanti e genitori. Siamo consapevoli che oggi, se la scuola non si occupa di educazione sessuale, l’unica alternativa è Internet, quindi la pornografia, che veicola moltissimi stereotipi e anche un messaggio di violenza nei confronti della donna. Noi vogliamo dare ai ragazzi e alle ragazze degli strumenti per fare delle scelte. In questo senso, dobbiamo prima formare i docenti, che passando tanto tempo con i più giovani lasciano trapelare concetti e contenuti fuorvianti anche quando non parlano direttamente di sentimenti e sessualità. Ecco perché ‘W l’amore’ è andato avanti finora grazie a insegnanti motivati, disposti a lavorare sull’argomento, mettendosi in gioco”.
In generale, nella fascia d’età delle superiori, che percentuale di popolazione riuscite a raggiungere?
“Circa il 18%. Sono vent’anni che andiamo nelle scuole secondarie di secondo grado, anche se con il tempo abbiamo capito la necessità di anticipare l’intervento, visto che si abbassa sempre di più l’età del primo rapporto sessuale. Siamo convinti che l’educazione alla salute sessuale e riproduttiva sia un diritto. Il punto è che trattandosi di progetti che si basano sull’adesione volontaria delle scuole, abbiamo una situazione a macchia di leopardo”.
Ci sono zone più resistenti di altre, in Emilia-Romagna?
“Non parlerei di differenze geografiche quanto di una diversa sensibilità da parte di insegnanti e famiglie. Non mi piace il concetto di ‘obbligatorietà’ ma credo che servirebbe, a livello nazionale, una collaborazione più forte tra settore dell’istruzione e settore della sanità in modo da favorire proposte come la nostra”.
Le scuole si organizzano anche da sé, per portare avanti questi argomenti?
“Capita che si affidino a un esperto esterno o a un’associazione. Sono modalità che non riusciamo a monitorare. Posso però dire che si tratta spesso di interventi calati dall’alto, che non prevedono un coinvolgimento ampio come quello che noi, invece, riteniamo fondamentale”.
Qualche anno fa ‘W l’amore’ è stato preso di mira. Come avete reagito?
“Siamo partiti nel momento in cui in Parlamento si discuteva delle unioni civili e siamo stati considerati i promotori della cosiddetta teoria gender. Ci hanno talmente massacrati che abbiamo vagliato di nuovo, per un anno, tutti i materiali, affinché nemmeno una virgola potesse essere contestata. Noi non proponiamo alcuna teoria gender, sempre che esista. Certo, pariamo anche dei ruoli di genere e di quanto gli stereotipi di genere possano essere nocivi. Per il resto, cerchiamo di dare ai ragazzi e alle ragazze degli strumenti per orientarsi. Un lavoro che ci appassiona e che consideriamo necessario”.
C’è stato qualche tabù più forte di altri?
“Senz’altro l’omosessualità, censurata da una parte cattolica molto chiusa. Lavoro, d’altro canto, con professionisti cattolici che portano avanti il progetto con convinzione ed entusiasmo”.
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