«Donne uccise da mariti e compagni, ho incontrato chi resta»

Giuliano Galiotto
Giovanna Ferrari

Immagini delicate, per nulla connotative, metonimie di fatti orrendi che sono accaduti, scatti di intenso valore e forte significato intimo, sociale e politico: sono le foto della mostra “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta” di Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, che si terrà al Palazzo Rasponi di Ravenna dalle Teste dal 20 (inaugurazione alle ore 16) al 27 febbraio e a Palazzo Vecchio di Bagnacavallo dall’1 al 6 marzo. Un reportage durato tre anni che racconta, attraverso le parole di chi sopravvive al femminicidio, gli esiti drammatici della violenza di genere. A vivere queste conseguenze sono madri, padri, sorelle, fratelli, figlie e figli, ai quali restano i giorni del dopo, i ricordi immobili trattenuti dalle cornici, dalle spese legali, le umiliazioni nei tribunali, le accuse mediatiche del “se l’è cercata”. Le fotografie si intersecano con le storie che sono narrate nel libro della stessa autrice: «Le conseguenze dei femminicidi e lo sguardo di chi resta» edito da Settenove.
Stefania, che fatica ha fatto ad avvicinarsi al dolore di queste famiglie, un dolore che sembra sfuggire a ogni definizione?
«L’idea di base è che raccontare un dolore così profondo deve avere una valenza di interesse pubblico, una finalità a livello sociale, altrimenti si rischia di scadere nel voyerismo o in quella che viene chiamata pornografia del dolore. Quindi l’intervistatrice e fotografa deve lasciare lo spazio alle parole e alle immagini di chi racconta. Il dolore è di chi lo vive, non deve esserci una sovrapposizione eccessiva dei due punti di vista, tra intervistatore e intervistato. Inoltre, per affrontare argomenti del genere, bisogna essere lucidi e tener conto che alcune domande potrebbero attivare nuovamente il trauma di chi lo ha vissuto».
Come è riuscita a entrare in contatto con le famiglie delle donne uccise?
«Dopo aver intervistato Giovanna e Giuliano, i genitori Giulia Galiotto, mi resi conto della portata pubblica del loro impegno e di come questo dolore diventi politico, messo a disposizione della società per fare formazione, informazione, per non dimenticare. Grazie al loro passaparola, sono entrata in contatto con altre persone che hanno deciso di partecipare al mio lavoro. Si tratta di famiglie che fanno parte di un “movimento informale” che esiste e che fatica a farsi riconoscere e accettare dall’opinione pubblica. Sempre più familiari intraprendono battaglie quotidiane: c’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi. Il tutto con l’intento di dimostrare che un femminicidio non può essere attribuito al caso, ma è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, attecchite su un senso di proprietà e di dominio degli uomini sulle donne ancora molto diffuso. Credo che il mio approccio estremamente chiaro e trasparente sia stato un valore aggiunto; contrariamente a quanto accade in alcune trasmissioni televisive, le dinamiche dei fatti e le relazioni sono state descritte senza scendere in dettagli macabri, senza parlare di presunte colpe della donna, elementi che rendono questa narrazione scorretta non solo dal punto di vista etico, ma anche errata dal punto di vista dei contenuti».
Quanto le storie si assomigliano e quanto differiscono l’una dall’altra?
«Ogni storia è a sé con alcune peculiarità specifiche. Variano le età, le vite delle persone; alcune presentano prima del femminicidio dei segnali concreti di violenza, altre no. Ma tutte condividono il dopo, in particolar modo la difficoltà ad avere una prima forma di giustizia mediatica. Titoli come: “Il delitto di San Valentino” fanno pensare a qualcosa che non è, come se uccidere per amore fosse possibile. Fino a poco tempo fa c’erano on line le foto di Ilaria Palummieri uccisa da “Ricky”, così veniva chiamato l’assassino della donna, con lei in top rosa mentre si trovava in discoteca. Lei era una donna forte, che svolgeva tre lavori che ha lottato fino alla fine prima di morire. È stata seviziata e uccisa in una casa vicino Milano e i vicini che hanno sentito tutto, non sono intervenuti. Questo è anche un delitto sociale. Un’altra caratteristica che accomuna queste storie è la difficoltà ad avere giustizia in sede giudiziaria. Quasi sempre gli avvocati difensori per passare al contrattacco denigrano la vittima, la fanno passare per una “poco di buono”».
Tra le voci raccolte nel suo libro, c’è quella di un padre e di un nonno (i due nipoti vivono con lui e con sua moglie) che lancia un grido: “Donne non denunciate”…
«La maggior parte di queste famiglie crede nella giustizia, ma nelle maglie del loro racconto si legge che se potessero tornare indietro, agirebbero diversamente. Questo padre diceva alla figlia di non scappare, perché altrimenti le avrebbero tolto i figli. E invece, poi, è andata come è andata. Un’altra cosa che accomuna chi resta è il senso di colpa di non aver fatto abbastanza. Spesso si attiva una vittimizzazione secondaria. In molti mi hanno raccontato che durante le loro iniziative sono spesso circondati da un “clima di sospetto”. È come se la gente li giudicasse, come se dicesse che non sono stati dei bravi genitori».
E poi ci sono i figli che rimangono, che vivono “il dolore di aver perso la mamma e la paura di dimenticarla”…
«La definizione di orfani speciali è emersa con Anna Costanza Baldry, professoressa di psicologia sociale dell’Università di Napoli. Il suo contributo è stato fondamentale nel riconoscere la peculiarità di questi orfani che perdono madre e padre in un solo colpo, analizzando le conseguenze del femminicidio da un punto di vista psicologico e sociale. Si dovrebbe assicurare loro di poter accedere a un percorso adatto per “guarire”, anche se come molti di loro dicono “con questo dolore ci devi convivere per sempre”. Con la legge 4/2018, in Italia è stato stanziato un fondo per gli orfani speciali, reso attuativo solo nell’estate del 2020. Dal Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica (Cnosp) emerge chiaramente come i 12 milioni di euro annui messi a disposizione dal Governo siano utilizzati in piccola parte. Tra agosto 2020 e luglio 2021 sono stati erogati 261mila euro a favore di 32 orfani, 29 assegni mensili di 300 euro e 17 borse di studio e ristoro con spese mediche per 65mila euro. Inoltre, nel periodo considerato, sono stati erogati 196mila euro di ristoro arretrato calcolato dal 16 luglio 2020, data dell’entrata in vigore del decreto interministeriale n. 71, o dalla data di affidamento del minore. Se pensiamo che solo nel 2020 ci sono stati 154 orfani riconosciuti, vediamo come il sistema ancora sia monco. Le procedure sono lunghe, i requisiti complicati, c’è una forte burocrazia che vi si contrappone. E per ora, solo chi ha strumenti culturali ed economici può far fare dei percorsi ai figli delle vittime di femminicidio».
La mostra fotografica è stata ospitata in diverse città?
«Sì, non solo in Italia, ma anche all’estero e in diversi contesti come all’aperto, musei, spazi espositivi e scuole. Il senso è quello di usare più mezzi espressivi per raggiungere chi questa tematica non la conosce, chi non avrebbe letto il libro. Interessante è il feedback degli studenti delle scuole medie e superiori che hanno avuto modo di vedere le foto e di leggere le testimonianze. Spesso nelle classi si crea il silenzio, c’è chi si commuove, chi rimane colpito dalle storie dei nonni, chi si sofferma sul linguaggio, sugli stereotipi e sugli schemi comportamentali che esistono anche in contesti e situazioni differenti, come quelle che magari vivono anche loro».

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