“Mio figlio Asperger, il nostro calvario e il bene che ne ricaverò”

(foto d’archivio)

“Io non lo faccio apposta mamma, è la mia natura!”.

Se per Cristiana Altieri, ravennate, c’è una frase significativa nella vita di suo figlio, è proprio questa. G., che allora ha solo 6 anni, è chiuso in bagno, abbacchiato dopo che la mamma, sfinita da una scuola arresa di fronte al caso del suo bambino e dal continuo rimbalzare delle diagnosi, l’ha appena sgridato.

Ma G., con una consapevolezza inaspettata, in quelle poche parole dice tutto. Dice che è un problema c’è e che se ne rende pure conto. Dice anche che nessuno lo capisce, in quel suo comportamento un po’ “bizzarro”.

“Bizzarro” non è una parola a caso. La disse una neuropsichiatra di Bologna, dopo che a Ravenna era stato escluso qualsiasi disturbo dello spettro autistico, quando vide G. per i primi controlli: “I casi sono due: o vostro figlio è bizzarro o ha la sindrome di Asperger, un tipo di autismo ad alto funzionamento”.

“Io non avevo mai sentito parlare di Asperger – ci racconta Cristiana -. Oggi, grazie a Greta Thunberg, questa parola è entrata nelle orecchie delle persone. Ma nel 2014, quando G. aveva nove anni, il vuoto. Certo, a ripensarci anche mio figlio ha sempre avuto una grande attenzione per l’ambiente: ha sempre detto che il pianeta va tenuto pulito, quando era piccolo passavamo le ore a raccogliere rifiuti e differenziarli. Senz’altro, G. è un ragazzino con un’altissima sensibilità, rispettoso degli altri, empatico”.

Fatto sta che quando sente la parola autismo, Cristiana si paralizza: “Alle mie orecchie non è arrivato altro, solo autismo. Mi sono bloccata, il ciclo mestruale da allora non mi è più tornato. Poi mi sono fatta forza, ho iniziato ad accettare. Allo Stella Maris di Pisa, dove siamo stati mandati per confermare una diagnosi che a Ravenna non era stata accettata, visto che mio figlio era stato definito ‘psicopatico’, ho visto bambini con i problemi più gravi e assurdi. E ho iniziato a pensare che ci poteva andare peggio”.

Intanto G., che per i primi anni delle elementari non aveva alcuna certificazione, a scuola era stato seguito da un’insegnante di sostegno pagata dalla famiglia: “Anche quando abbiamo cambiato istituto sperando di ricevere maggiore supporto, stanchi di sentirci dire che non erano in grado di gestire G., si è ripetuto lo stesso scenario e abbiamo dovuto provvedere di tasca nostra. Solo dalla quarta, dopo avere ricevuto la diagnosi, a mio figlio è stata garantita la copertura delle ore di sostegno”.

 Fatto sta che dalla prima media, grazie alle terapie, all’educatore domiciliare e alla crescita, G. ha iniziato a fare miglioramenti importanti: “Se prima era iperattivo, non riusciva a stare concentrato e fermo, oggi è molto cambiato. Ha ancora quelli che chiama ‘i miei momenti di autismo’, quando i pensieri si accavallano e va in tilt. Ma se ne rende pienamente conto. Pensando a quando era piccolo, i segnali c’erano eccome e io li avevo visti tutti: a quattro anni ancora non parlava. Quando, a distanza di molto tempo, gli ho chiesto come mai, lui mi ha risposto che non aveva nulla da dire. Parole che ho sentito pronunciare anche a Greta. Solo a distanza di anni, certo, si apprezza il valore di tutto questo, si inizia a pensare che il proprio figlio, così diverso, sia davvero speciale. Che sia in grado di insegnarmi ogni giorno qualcosa: l’altruismo, la dolcezza, l’accettazione delle cose, la capacità di farsene una ragione, quando la vita non va come vorremmo”.

Cristiana, che si definisce credente, col tempo ha anche cominciato a vedere in G. quel segno che aveva invocato a quarant’anni, quando per un periodo si era sentita insoddisfatta della propria vita: “Andavo a lavorare, avevo un compagno che lavorava in Mozambico e un padre malato. Sarà per questo che G. è arrivato proprio quando nessuno lo aveva messo in conto. Ricordo ancora quando passai in rassegna dodici farmacie, a Maputo, per trovare un test di gravidanza”.

Oggi che G. ha quattordici anni, Cristiana resta convinta di una cosa: “Nessun genitore deve passare quel che abbiamo passato io e il mio compagno. Nessuna persona Asperger deve essere chiamata scema, come mi disse una volta una donna in un parco in cui G. aveva semplicemente provato ad accarezzarne il cane. Non è vero, come mi consigliò quella donna, che i bambini come mio figlio vanno tenuti in casa”. Se G. da piccolo piangeva sempre e si ammalava di continuo, se si isolava dal mondo per poi cercarne il contatto, se faceva boccacce e a scuola guardava fuori dalla finestra, oggi è un ragazzo autonomo e capace di far vedere agli altri l’altra faccia della medaglia delle cose: “Il suo futuro lo vedo positivo, perché vuole bene agli altri, vede il bello ovunque ed è capace di reagire. Nonostante l’ansia che fa da padrona nella sindrome di Asperger, me lo immagino, pensando a domani, sereno”.

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