“Non amo espormi, anche se appena ho iniziato a raccontare quello che faccio e da quale esperienza vengo, mi sono resa conto che gli altri considerano tutto ciò grande e importante. Ecco, forse mi fa bene sentirmelo dire, perché la malattia che ho avuto a 15 anni non ha fatto bene alle mie insicurezze”. Jessica Bandini, 31 anni, forlivese, è una biologa del laboratorio di Oncoematologia pediatrica dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove ogni giorno – da pendolare – arriva per occuparsi della citofluorimetria, lo studio degli immunofenotipi, ovvero della veste immunologica delle cellule, necessario per scoprire le caratteristiche delle malattie al loro esordio o quando presentano una recidiva.
Gli stessi corridoi che Jessica percorre per lavoro li ha frequentati il primo anno delle superiori, quando tra chemioterapia e radioterapia ha affrontato il linfoma di Hodgkin: “Ho vissuto quell’esperienza con una sorta di inconscio distacco, forse per meritò dell’età, vogliosa comunque di andare a scuola al liceo linguistico, cosa che ho continuato a fare anche con la parrucca, protetta da professori e compagni. Fuori no, non mi sono mai sentita altrettanto tutelata, tanto che oggi posso dire che la malattia mi ha senz’altro incupita, portandomi a voler lavorare nelle retrovie. D’altro canto il linfoma rimane una grande occasione: quella che mi ha fatto capire che avrei voluto rimanere nel mondo della ricerca e della diagnostica, cosa che da cinque anni a questa parte posso fare con un contratto di lavoro”.
Jessica è anche il volto della campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi #LOTTOANCHIO lanciata da Ageop Ricerca – Associazione genitori ematologia oncologia pediatrica. L’obiettivo è raccogliere 50mila euro per adottare per due anni il progetto di ricerca portato avanti dal laboratorio in cui la ricercatrice forlivese lavora: “Sono contenta di occuparmi di tutto questo e credo che a consentirmelo, oltre alle competenze professionali, sia l’atteggiamento che la mia malattia mi ha portato ad avere: una sorta di naturalezza nell’approcciarmi ai piccoli pazienti. Per me è normale vedere le mamme e i papà nei corridoi di questo reparto, così come i bambini attaccati alla flebo e alla chemio. Normale non significa bello, tutt’altro. Significa che non ho mai avuto paura di rivedere in faccia le conseguenze della malattia, per quanto mi vengano in mente certi momenti brutti, così come i volti dei miei genitori quando è toccato a loro. Sono molto sensibile ed empatica rispetto alle famiglie che stanno vivendo quello che ho passato anche io ma il fatto di non sentire dentro di me un contraccolpo esagerato mi consente di stare dentro questo dolore degli altri”.
Del resto Jessica, ragionandoci, ha capito che alle paure e alle incertezze che il linfoma le ha lasciato in eredità, si affianchi in ogni caso il riscatto emotivo che oggi sperimenta su se stessa facendo ricerca: “Lavorando qui tampono tutti gli effetti negativi della mia esperienza”.
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