“Negli occhi delle mamme scorgo la paura. Il loro sguarda parla da solo. Racconta la devastazione nel vedere una bambina di sette anni a terra, che non ti riconosce, che si muove in modo convulso, che non articola una parola. Racconta la tragedia di voler vedere la malattia disintegrata modello laser di Star Trek ma di non poter fare nulla per riuscirci”. Davide Oldani, 52 anni, fino al 13 marzo del 2014 non sapeva bene cosa fossero, le epilessie. Ma da allora, dopo la prima crisi, la sua vita ruota intorno a quella che lui considera una persona a sé, un’avversaria ancora impossibile da sconfiggere ma che lo aspetta ogni giorno sul ring. L’epilessia dell’ex vicedirettore di albergo di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, è infatti – per il momento – farmaco resistente, come racconta nel libro “In controluce. Scatti di epilessia” edito da Homeless Book e curato dall’Associazione epilessia Emilia-Romagna.
Davide, che cosa ricorda di quel giorno di marzo?
“I medici intorno che mi chiamavano e che cominciavano a parlare di problemi al cuore. Io avevo sofferto di aritmie in passato e sapevo benissimo che quello che mi era appena capitato, con il cuore, non c’entrava nulla”.
Quando riguarda la sua vita prima di allora, che cosa prova?
“Un senso di privazione, senz’altro. Avevo una vita ben avviata, un buonissimo lavoro come capo ricevimento all’Hotel Touring di Carpi. Con mia moglie Adriana, anche lei con un buon impiego, avevamo appena ristrutturato casa. All’inizio ho provato a ridurre le ore lavorative ma poco a poco, non potendo più guidare e assumendo farmaci con pesanti effetti collaterali, ho dovuto smettere. Devo dire che è l’aspetto che più mi pesa. Quando mi è arrivato il riconoscimento dell’assegno di invalidità, ecco, non è stato un bel momento. Il mio sogno, se un giorno troveranno la cura per me, è trovare un piccolo impiego, essere impegnato, sentirmi utile, riacquisire libertà”.
Come ha vissuto il fatto di non potere più prendere l’auto?
“All’inizio molto male. Non mi sentivo più autonomo. La legge italiana dice che dopo un anno senza crisi, una commissione medico-legale può riaprire il caso, valutando la riammissione alla guida. Io, al solo pensiero, mi metto una paura folle. Sono già passato una volta con il rosso, avrei potuto combinare di tutto”.
Come passa, oggi, le sue giornate?
“Con un caschetto in testa per evitare di farmi molto male. I miei suoceri vivono sotto, quando sentono il tonfo sanno che devono venire su. La vita cambia moltissimo e cambia soprattutto per le persone che ti stanno intorno. Chi ha l’epilessia non si abitua alla malattia ma una ragione prova a farsela. I familiari, invece, no. Escono dalla diagnosi spiazzati. E lo rimangono anche dopo. Purtroppo in Italia non è previsto un sostegno psicologico per le persone con epilessia e le loro famiglie mentre, così come per altre malattie o disabilità, io credo che un percorso terapeutico stabilito dalle linee guida sia più che mai necessario”.
C’è ancora tanto stigma, verso le diverse forme di epilessia?
“Sì, le epilessie fanno paura e molti pensano siano impossibili da gestire, quando invece basta apprendere poche semplici azioni. Lo dico pensando, soprattutto, al mondo della scuola e dei bambini. Ho sentito di catechisti che si sono rifiutati di fare accedere bambini epilettici. A volte è necessario che un adulto impari due o tre cose e capisca che basta una solo persona intorno, a rassicurare chi ha appena avuto una crisi, non sessanta”.
Lei come immagina il suo futuro?
“Sono costretto a vivere alla giornata, tenendo salda la speranza e la convinzione che alla fine, un farmaco per me, ci sarà. Il ‘dopo di noi’ è comunque un tema che mi sta a cuore. Che ne sarà di quegli adulti con epilessia, magari con deficit cognitivo, quando perderanno i genitori? Dove andranno? Chi se ne occuperà? Qui siamo davanti a un problema politico, non più medico”.
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