Disturbo da panico, ex addetta della Lidl: “Umiliata per anni sul posto di lavoro”

“La ferita maggiore è stata l’umiliazione della mia persona come lavoratrice. Un’umiliazione ingiusta, devastante, anche perché credevo molto nel lavoro come valore e non solo come mezzo di sussistenza. Ho investito dieci anni della mia vita in un impiego che mi sarebbe piaciuto, se non si fossero scatenate cause esterne nelle relazioni con i miei superiori che hanno reso il lavoro stesso e i rapporti all’interno dell’azienda motivo di ansia, paura e stress continui. Dopo essere stata licenziata non ho più trovato un impiego: l’età non mi aiuta, il mercato nemmeno, e sicuramente non mi aiuta il mio stato di salute. Inoltre mi sembra che, dopo quell’esperienza, ci sia come un veto sopra di me. Ai colloqui non mi chiamano mai”.

Per Sara Silvestrini, 39 anni, di Lugo, difesa dall’avvocato Alfonso Gaudenzi, oggi è un giorno particolare. In Tribunale a Ravenna si apre infatti il processo a carico dell’uomo che lavorava come caporeparto uscita merci del magazzino LIDL di Massa Lombarda negli anni in cui lei era dipendente, oltre che a carico di tre responsabili dell’azienda (il procuratore speciale, il coordinatore regionale logistica, il coordinatore regionale amministrativo). Per il caporeparto, l’accusa è di aver cagionato alla donna una malattia professionale, diagnosticata dagli specialisti come disturbo da panico. Malattia scaturita da una serie di comportamenti vessatori messi in atto ai suoi danni. Per gli altri il reato è di non aver impedito le condotte poste in essere dal caporeparto, pure omettendo di effettuare una valutazione del rischio da stress lavorativo come da obblighi di legge.

La novità di oggi è che non sarà solo l’ex impiegata della Lidl a costituirsi parte civile. A farlo – ed è una delle prime volte che succede in Italia – sarà anche la compagna della donna, Federica Chiarentini, che si considera danneggiata di riflesso dai problemi di salute avuti da Silvestrini, con cui ha una relazione stabile da otto anni.

Tutto inizia nel 2005, quando Silvestrini viene assunta dalla Lidl. Dopo alcuni mesi ricchi di soddisfazioni, arriva un nuovo caporeparto (uno dei quattro imputati del processo) che inizia a tenere comportamenti anomali: “La prima cosa che mi disse è che non avrei potuto più usare né il computer né il telefono dell’ufficio. Preciso che avevo un contratto da impiegata. Il mio lavoro era gestire un reparto di materiale di allestimento, una sorta di magazzino nel magazzino. Potevo entrare in ufficio soltanto per parlare con i miei diretti superiori, senza utilizzare gli strumenti quali il computer o il telefono per comunicare con le filiali, e questo mi mise in difficoltà. Non avevo più i mezzi per fare le cose fatte bene. Non solo: non venivo più fornita di un supporto quando c’erano da sollevare pesi ingenti, cosa che trattando il materiale di allestimento capitava spesso. Il lavoro era vasto, gestivamo novanta filiali in quel momento. Tanto che l’anno dopo, oltre a crollare psicologicamente, iniziai a sentire dolore fisico alle braccia, ai polsi, alla schiena”.

Il medico firma un certificato nel quale dichiara che la donna non può sollevare pesi per una sospetta tendinite: “Niente da fare. Il capo mi disse che non valeva niente, tanto che mi misi in malattia per alcuni brevi periodi. Al mio ritorno, descrivendola come una soluzione, mi disse che da quel momento avrei coperto i turni notturni in altra mansione, ovvero la gestione della partenza dei camion – sebbene il mio contratto non prevedesse il notturno – in modo da godere del riposo dal sollevamento carichi, per recuperare fisicamente. Ma c’erano sempre emergenze e mi ritrovai a gestire sia il materiale di allestimento che a coprire i turni notturni, tant’è che in una settimana arrivai a fare addirittura 39 ore di straordinario oltre alle 38 ordinarie”.

In quel periodo iniziano vessazioni sempre più pesanti verso Silvestrini: “Ogni volta che iniziavo il turno notturno voleva che lo chiamassi al telefono per farmi il resoconto della nottata precedente e non perdeva occasione per insultarmi e offendermi. Mentre accumulavo ansie su ansie, prese a darmi la colpa quando dicevo che certi camionisti avevano brutti modi di fare, aggressivi. La responsabilità, a detta sua, era mia che non ero gentile e accomodante, che ero acida. Che con i camionisti dovevo essere in un certo modo, che non poteva essere lui a dirmi come fare ma che avevo capito perfettamente cosa intendeva. Però, se qualche volta alcuni camionisti mi molestavano la colpa era comunque mia, perché a suo dire davo troppa confidenza”. I problemi fisici di Silvestrini aumentano e dopo un nuovo periodo a casa, al rientro le viene chiesto di pulire i muletti, un’attività speciale che non eseguivano nemmeno gli addetti alle pulizie se non in casi eccezionali. Soprattutto, doveva pulire i muletti anche se gli addetti li avevano ancora in uso: “Ogni pretesto era buono per umiliarmi. Certi giorni anziché impiegarmi nella gestione delle partenze merci, mi costringeva a occuparmi solo dello smistamento dei rifiuti, e poi a prendere permessi per mandarmi a casa”.

Una volta, presa da un enorme carico di lavoro, Silvestrini telefona al capo gli per segnalargli che non le è possibile seguire anche la formazione della persona che le aveva affidato: “Mi aggredì, dicendo che ero un’incapace e che mi stavo scavando la fossa da sola. A questo punto ebbi una crisi nervosa, scagliai il telefono e mi misi a piangere, tant’è che colleghi presenti mi soccorsero accorgendosi di ciò che era successo”.

Dopo un paio d’anni di ‘tregua’, nel 2012 ricominciano le angherie: “Nonostante fossi passata da quarto a terzo livello, c’era sempre una scusa per squalificarmi e molti pretesti per farmi aggressivi richiami verbali, anche in presenza di altre persone, erano del tutto inventati”. Tra i soprusi verbali che Silvestrini ha più impressi nella mente, la volta in cui il caporeparto le disse che il suo essere un terzo livello era “una diarrea sul bancone dell’uscita merci” e che lei era “come un malato di tumore, che tutti si accorgono che è malata tranne lei stessa”.

Nel 2013 Silvestrini viene rimessa in turno di notte, arrivando a coprire il ruolo notturno per il 77% del suo monte ore annuale senza che sia stata sottoposta alla relativa visita medica specialistica come da obbligo di legge: “Quando smontavo andavo a casa a dormire e spegnevo il telefono perché spesso mi chiamava proprio la mattina mentre dormivo, nonostante il mio ruolo fosse sprovvisto di reperibilità. Ma lui cercò tramite la mia famiglia di origine e alcuni colleghi miei numeri di telefono alternativi che però non avevo, chiedendomi infine di acquistare una Sim appositamente per lui, allo scopo di ricevere le chiamate unicamente in caso di emergenza. Il punto è che mi chiamava sempre, senza motivo, per cose futili”.

Nel 2014, dopo un incidente stradale e il relativo periodo di infortunio, Silvestrini torna al lavoro trovando una situazione per lei ancor più insostenibile, e un clima d’insofferenza da parte anche di altri superiori, che traspariva in atteggiamenti atti presumibilmente a spronarla a licenziarsi. Inoltre alle lettere di contestazione disciplinare (che a questo punto erano diventate continue) e alle provocazioni verbali si erano aggiunte, da parte del caporeparto, anche le aggressioni fisiche: “Una volta mi ha strattonata per la camicia, un’altra volta mi è venuto volontariamente addosso muletto contro muletto, e altre volte mi ‘schiacciava’ contro la parete mentre mi parlava”. E ancora: “Le lettere di contestazione disciplinare notificate erano pretestuose, riguardanti colpe di altri colleghi, oppure conseguenti a istruzioni impartite volutamente errate dal caporeparto stesso. Una volta, dovendo e potendo accedere alle mail dei miei superiori, come il mio terzo livello a loro dire richiedeva, seppi in anticipo che me ne sarebbe arrivata una nuova. E mi sentii male”. Dopo l’episodio, il Centro di salute mentale prescrive alla donna dei medicinali, diagnosticandole un disturbo da panico: “Ho dovuto assumere alcuni farmaci per riuscire a rientrare al lavoro dopo un periodo di assenza, e ho iniziato anche a essere seguita da una psicoterapeuta. Di lì a poco, il 28 luglio del 2015, sono stata licenziata in seguito all’ennesima lettera di richiamo”.

Oggi la donna, alla quale alla fine di quell’anno la Medicina del Lavoro dell’azienda ospedaliera universitaria di Verona ha diagnosticato un “disturbo post traumatico da stress cronico reattivo a una condizione lavorativa che può essere inquadrata nelle molestie morali protratte“, si costituirà parte civile al processo mosso da una denuncia della stessa Medicina del Lavoro: “Mi porto ancora dietro, a livello psicologico, le ripercussioni di come sono stata trattata. Non posso dire con certezza che la mia omosessualità c’entri qualcosa. Una volta sentii il caporeparto chiedere in mia presenza a un camionista se avesse preferito avere un figlio gay o interista, stupendosi negativamente dinanzi al fatto che avrebbe preferito un figlio omosessuale. Certamente, chiedere di essere più ‘carina e disponibile”‘con i camionisti quando sapeva che sono lesbica, mi è molto pesato. Ma questo, in quanto donna, mi avrebbe infastidito a prescindere dalla mia omosessualità. Fatto sta che sono stata denigrata, offesa, minacciata. E vorrei avere giustizia, sperando che questo possa essere d’aiuto a chiunque subisca angherie pesanti e umilianti sul posto di lavoro”. 

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