Si aprono nuove frontiere per il cosiddetto test del Dna fetale, che già da qualche anno è una delle opzioni che le future mamme si trovano davanti quando prendono in considerazione la diagnostica pre-natale. A confermarlo è Antonio Farina, ginecologo e professore associato al Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche dell’Università di Bologna.
Professore, che cosa c’è di nuovo nell’aria?
“Oggi abbiamo a disposizione nuovi pannelli che ci danno informazioni su malattie che i genitori non hanno ma i figli sì, come le craniosinostosi, la sindrome di Rett e la sindrome di Noonan ma anche su malattie recessive di cui i genitori sono portatori sani, come la fibrosi cistica. Una nuova frontiera davvero molto interessante”.
Le donne oggi scelgono sempre più spesso il test del Dna fetale?
“Sicuramente oggi le donne sanno di cosa si tratta e, quando lo scelgono, chiedono molto spesso il pannello completo, che non consente di rilevare solo le trisomie 13,18 e 21 ma anche le più frequenti sindromi da micro-delezioni. Capita che le donne vogliano effettuare il test molto precocemente: io, personalmente, preferisco posticiparlo di un paio di settimane perché più avanti è più probabile avere più Dna fetale e metto al riparo le donne da scelte dettate, magari, da falsi positivi che le inducano ad interrompere la gravidanza entro in termini di legge ma senza eseguire l’esame invasivo di conferma “.
La non invasività del test è l’aspetto che più attrae le gestanti?
“Io credo che la scelta di quale indagine diagnostica fare sia dettata in molti casi da ragioni economiche. Ma ci sono anche aspetti psicologici, a mio avviso, da considerare: la donna che opta per il test combinato è già pronta a un’amniocentesi (gratuita) nel caso il risultato sia positivo, dunque mette già in conto il rischio. Chi accede al test del Dna fetale parte invece dal concetto opposto e cioè dal desiderio di eliminare in partenza il dubbio senza fare esami invasivi o farli solo se esiste un rischio concreto di malattia fetale “.
I ginecologi e i genetisti, invece, si scontrano spesso sul Dna fetale?
“Sì, succede. Sulle micro-delezioni, per esempio, i genetisti hanno delle resistenze. Così come, fino a qualche tempo fa, dicevano che il test del Dna fetale era poco attendibile sulla sindrome di Di George, posizione che ormai hanno, per quanto ne so, abbandonato. Quel che è certo è che, al di là delle differenze tra le varie compagnie, le performance del test del Dna fetale sono sempre superiori a quelle del test combinato”. Le posizioni ufficiali delle società scientifiche hanno comunque ancora un atteggiamento molto prudente sulla estensione del test e raccomandano l’uso solo per trisomie più frequenti.
Stanno calando, per le donne, i costi del test?
“Sì ma dipende molto da come si lavora. Io, per esempio, mando i campioni negli Stati Uniti, dove i referti vengono firmati da un medico americano, poi tradotti e firmati da un medico italiano. Si tratta di condizioni di sicurezza molto importanti per me e per la donna, perché individuano, in caso di problemi, delle responsabilità più chiaramente tracciabili”.
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