“Per poesia intendo l’emotività e la capacità di vivere le cose nel loro profondo. Questo sentirmi pronto a scavare e conoscere mi ha spinto verso il mondo dell’educazione, dove le emozioni le devi esplorare per capire te stesso ma anche per utilizzarle come strumento di lavoro, con l’obiettivo di fare crescere le persone”.
Spesso il lavoro educativo viene associato al burn-out, ai sovraccarichi di incombenze e compiti che lo svuotano di senso: lei come la vede?
“Io parto dall’idea che un educatore non deve rischiare di rimanere solo, ingabbiato nella propria auto-referenzialità. Deve, al contrario, avere una visione ecosistemica, andarsi a cercare le atre risorse che nel territorio potrebbero integrare il suo lavoro. La ricerca di queste sinergie e la sfida perenne allo status quo, che si attua solo attraverso il coraggio, non devono mai mancare. Senza alleanze il pericolo è quello dell’ovvietà. Ecco, un educatore non dovrebbe mai accettare l’ovvietà”.
Lei parla dell’ascolto come di uno dei cardini per chi educa. Viene insegnata, questa parte, nei corsi di formazione e all’Università?
“Spesso, purtroppo, la si dà per scontata. Invece bisogna ribadire che per educare bisogna conoscere. E per conoscere bisogna ascoltare. Parlo spesso di ‘ascolto pulito’ intendendo un ascolto non viziato da pregiudizi di alcun tipo, positivi o negativi che siano”.
In Italia c’è anche un problema di scarsa considerazione sociale del lavoro degli educatori?
“Assolutamente. Spero che la legge Iori approvata lo scorso anno possa davvero riqualificare una figura poco considerata e ridarci prestigio sociale”.
Ha mai avuto momenti di scoraggiamento, nella sua carriera?
“Sì ma mai rispetto al ruolo esercitato”.
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