Crescere coi genitori comunisti in Romagna: dalla scuola alle feste, un’infanzia ‘diversa’

Non solo non lo hanno mangiato. Ma hanno dato un contribuito decisivo a farlo diventare così com’è: curioso, brillante, riflessivo, disincantato, garbato. Marco Ortolani, 51 anni, è cresciuto a Ravenna, in un ambiente comunista, con genitori comunisti. E non se ne vergogna. Anzi, ci ha fatto pure un bel libro intitolato appunto: “Eppure non mi hanno mangiato”. Una riflessione ironica su una stagione passata per sempre ma che merita, anche a livello locale, di essere ricordata e tramandata non foss’altro perché, come è stato detto, “la storia è una serie interminabile di significati. Oscurarne uno non darà più luce ad un altro”. L’opera, edita dal Girasole, non è un semplice libro di memorie di un uomo di mezz’età che si interroga su chi sono/da dove vengo/dove vado ma rappresenta una rievocazione fatta con tocco leggero e inevitabilmente nostalgico, il diario di un’intera generazione all’interno di una comunità forte, coesa, con una precisa identità. In poche settimane già molti lettori hanno fatto presente ad Ortolani, giornalista sportivo ma da sempre attento anche al costume e al territorio, di riconoscersi in certe situazioni, di immedesimarsi in quei modi di pensare e di vedere la vita (‘valori’, detto con un termine impegnativo oggi spesso usato a sproposito) descritti nelle 141 pagine concluse con una citazione di “Qualcuno era comunista” di Giorgio Gaber.

Ognuno a modo suo e con motivazioni personali, originali e bizzarre, come rimarcava l’artista milanese nel suo celebre pezzo. I propri perché Ortolani li spiega omaggiando i genitori e un’epoca – il ventennio che va da dal ’68 alla caduta del Muro – che, esattamente come ogni altra, è stata caratterizzata da errori e orrori, bellezze e splendori; che si è nutrita di lampi di genio e di sperimentazioni, di ingenuità e di clamorose cazzate. Prendiamo l’educazione scolastica ad esempio: il piccolo Marco frequentava le elementari Randi, primo istituto a proporre il tempo pieno a Ravenna e audace sperimentatore di altre novità: le maestre “si fanno dare del tu, usano audiovisivi, insegnano la tecnica dell’assemblea, parlano di attualità, rischiano qualche cenno di educazione sessuale”. Un rivoluzione: rifiutano il nozionismo, propongono educazione civica e stradale ma soprattutto non danno voti a compiti e interrogazioni. Quanto alle bocciature, non sono semplicemente previste. Impossibile. Un tipo di scuola che fa ideologicamente felici i genitori di Marco ma che alle medie presenta il conto: i bambini usciti dalla Randi sono sicuramente più creativi e hanno una coscienza civica più alta della media ma, ahiloro, zoppicano sui fondamentali. Alla fine pure la scuola “gentiliana e borghese” aveva qualche merito… Contrordine compagni: testa bassa e studiare.

Marco Ortolani

A casa l’educazione prosegue con la censura delle favole in cui le protagoniste femmine “non fanno null’altro che farsi rapire, addormentarsi, ballare e ambiscono a diventare principesse, ovvero strumenti del piacere maschile, nullafacenti con mera funzione estetica e riproduttiva e con mantenimento a carico del popolo lavoratore”. Meglio i racconti “ispirati alla collaborazione fra animali, alla saggezza, all’ecologia” e le favole di Gianni Rodari. Tra i fumetti sì a Linus, specialmente prima che venga sdoganato, inflazionato e ridotto a marchio commerciale. Ni a Topolino di cui la madre condivide gli approfondimenti dedicati ad arte, sport, giochi e attualità, “l’umorismo gentile” e “l’ottimo italiano” ma di cui il padre teme “la morale benpensante e conservatrice dei protagonisti, l’ambizione all’accumulo di denaro”. Tappa fondamentale del percorso del giovanissimo militante invece è la distribuzione dell’Unità agli abbonati, casa per casa. Sul volontariato alla Festa non c’è neanche bisogno di soffermarsi: fa parte del pacchetto del Partito. E chi chiede quale partito, forse è meglio che si dedichi alla playstation.

Le feste, poi, in una famiglia comunista hanno un significato tutto particolare. I bambini devono imparare fin da piccoli che “se si punta alla laicità bisognerà liberarsi anche delle seduzioni più affascinanti delle ritualità cattoliche“. Si cercano quindi calendari senza indicazioni dei santi mentre il patrono cittadino Apollinare viene festeggiato il 23 luglio con una laicissima gita al mare, l’Epifania viene trasformata nel meno impegnativo “Befana” e la Pasqua viene ridotta “al rito delle uova di cioccolato”. Lo scoglio più duro per i bambini è il Natale ma se cresci in una famiglia in cui il padre fa i turni al Petrolchimico, certe tradizioni (più o meno) cattoliche e borghesi fatte di gesti sempre uguali e di ritualità assortite te le scordi più per necessità che per ideologia: può capitare che il genitore lavori a Natale, Capodanno e compleanni vari. In ogni caso il 25 dicembre “non c’è la messa, non ci sono addobbi, o alberi o presepe. Non c’è Babbo Natale. Ci sono i regali, consegnati però senza troppe cerimonie misteriose” come passaggi dal camino o movimenti notturni. Ci  sono i dolci, c’è qualche “occasionale tombola” molto austera senza degradare nel capitalistico Mercante in Fiera o altri giochi “basati su un azzardo privo di qualsiasi abilità”.

In compenso a casa Ortolani si festeggia in pompa magna il Primo maggio e il 25 aprile e quando l’Italia del calcio affronta in amichevole la Cecoslovacchia pigliando tre gol, il padre dell’autore può fare esplodere tutta la sua gioia per il successo dei “dilettanti che giocano per passione” sui “miliardari strapagati dai club degli industriali e dei padroni”: “Abbiamo vinto!”, esulta. Salvo essere duramente ripreso proprio da un parlamentare del Pci: “Siamo italiani e si tifa per l’Italia”. Forse il problema non erano i genitori comunisti…

Un libro da leggere. E che i ragazzi di allora, indipendentemente da successive autocritiche, ripensamenti, rinnegamenti e tradimenti vari, devono leggere. Buona digestione.

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