Ravenna, va in pensione la prima maestra che si occupò di autismo

Tiziana De Crignis

Tiziana De Crignis non scorderà mai il giorno in cui Sabrina (nome di fantasia), per la prima volta si riconobbe nello specchietto di un Mercedes nero parcheggiato in via Baccarini a Ravenna, vicino alla sua scuola dell’infanzia, e per l’euforia iniziò a leccarlo, toccandosi insistentemente: “Quando il proprietario arrivò, lo pregai di stare via un’altra mezzora per non interrompere quel momento magico. Lui fu gentilissimo, se ne andò. Ma quando tornò, la bambina si rifugiò per la rabbia sotto l’auto e io dovetti fare lo stesso per recuperarla”.

Tiziana, per tutti Titti, 63 anni e prossima alla pensione, è stata la prima maestra a occuparsi, a Ravenna, di un caso di autismo: “Era il ’76, avevo 21 anni e insegnavo, non ancora di ruolo, alla scuola dell’infanzia ‘I Folletti’ di Mezzano. Le maestre che erano davanti a me in graduatoria, quando venne proposto loro di occuparsi di Sabrina, non se la sentirono. Io, che mi sentivo portata per il sociale e per la disabilità, accettai l’incarico di aggiunta nella scuola che allora si chiamava ‘Baccarini’, in centro a Ravenna, pur senza sapere cosa fosse l’autismo e buttandomi alla cieca”.

Sabrina aveva tre anni, era massiccia di corporatura, non parlava, il suo sguardo era perso nel vuoto: “Urlava, non aveva il controllo degli sfinteri, si strappava i capelli, mordeva, si buttava per terra. Ero catapultata in un mondo nuovo, senza una formazione e senza strumenti ma con la voglia di mettermi in gioco e migliorarle la vita. Quello con Sabrina era stato un incontro d’amore, ero lì per lei. Da Bologna mi mandarono la neuropsichiatra Francesca Belletti, che non solo mi indirizzava sul lavoro da fare con la bambina ma che mi supportava psicologicamente. E così iniziai a sperimentare, con la musica, l’acqua, la farina, gli impasti”.

Intanto, a casa Sabrina non era seguita adeguatamente: “La sua era una famiglia povera culturalmente, che quando tornava da scuola la sedava con le gocce, facendola dormire per ore e ore, fino al giorno successivo. Io presi a portarla a casa mia, ad accompagnarla al parco, a farle coprire il profumo dei fiori, la bicicletta. La riportavo dai suoi genitori dopo cena, cosa che oggi sarebbe impensabile”. Fino a che, durante il primo anno di scuola dell’infanzia, un giorno la piccola indicò la sua insegnante, pronunciando la parola “Ghighì”, che da allora divenne il nome della maestra: “Mentre lo diceva indicava il giradischi. Finalmente era riuscita a dirmi che voleva che io compissi una certa azione”.

Sempre più motivata, Tiziana l’anno dopo tenta di togliere a Sabrina il pannolino: “Ci vollero sette mesi. Un bel giorno fece la pipì senza pannolino, allargò addirittura le gambe per guardarla, meravigliata dal suo stesso miglioramento. Fu un momento magnifico, lei aveva un sorriso diverso dagli altri. Fu la dimostrazione che il mio lavoro serviva, la Belletti mi disse che pareva avessi frequentato una scuola ad hoc”. Sabrina frequentò la scuola per quattro anni, fino alle elementari: “Quando la lasciai era più rilassata, aveva alcuni momenti di interazione sociale, mordeva di rado e si strappava meno i capelli. Continuai ad andare da lei fino alla seconda, poi la persi di vista. Oggi ha 46 anni ma il ricordo è ancora vivissimo”.

Per il suo lavoro, Tiziana venne molto riconosciuta. E in seguito all’esperienza con Sabrina, accettò di seguire altri due casi: prima quello di un altro bimbo autistico e poi, dopo aver vinto il concorso ed essere andata a lavorare a Godo, quello di una bimba autistica, cieca e sorda: “Un caso difficilissimo dove si evidenziarono tutti i miei limiti, potendomi dedicare di fatto solo a un’attività di assistenzialismo”.

È dopo quell’avventura che Tiziana, alla ricerca disperata di una gravidanza, riesce quasi miracolosamente a rimanere incinta, attraversando però una gestazione ricca di insidie: “Dopo essere diventata mamma, nel 1990, ho preferito non occuparmi più di disabilità. Quando segui un bambino autistico o con altri problemi, ti porti il lavoro a casa. Così, dal rientro dalla maternità in poi, ho sempre lavorato come insegnante di sezione”. Ma quella capacità di registrare segnali e dedicarsi alla fragilità, Tiziana l’ha mantenuta: “Intorno al 1997, nella scuola comunale di Mezzano in cui sono ancora, mi capitò un bambino non segnalato che però aveva atteggiamenti particolari. Diceva sempre di essere un dinosauro, simulava di continuo un dinosauro, anche a tavola. La madre era disperata, la pediatra era incredula. Dentro la mia testa era diventata una sfida, quella di capire. Un giorno presi un telo, mi ci nascosi dietro e iniziai a parlagli da dietro. Cominciai a dirgli che lui era anche Marco, il bel bimbo con i riccioli neri e gli occhi dolci che io conoscevo. E gli proposi di mandarlo un po’ a dormire, il dinosauro. Il bambino mi spiegò che era nato dinosauro, che la sua mamma lo aveva creato così su un divano di casa loro, che lui la notte aveva paura dei mobili, perché si muovevano. E che lui, nonostante fosse un dinosauro, quella situazione non riusciva a fronteggiarla”.

Fu una specie di seduta di analisi, per Tiziana: “Da quel giorno, gradualmente, l’ossessione per i dinosauri, che forse era stata rinforzata in famiglia, sparì. Marco restò sempre un po’ indietro rispetto agli altri ma il problema era stato superato”.

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