Silvia Mangone: “Scrivo una favola per raccontare la fecondazione assistita”

Silvia Mangone

Era a letto da mesi, Silvia Mangone, quando suo figlio Santiago, che nella pancia aveva superato perdite, distacco di placenta ed emorragia, rimase lì, attaccato alla vita ma soprattutto al sogno di sua madre. Che in quel momento, sempre più convinta che la bacchetta magica di Harry Potter esista e i grilli parlanti pure, chiamò un’amica per chiederle se poteva disegnarle un asino che vola da mettere nella cameretta di suo figlio. Nacque in quel momento, circa tre anni fa, l’idea di scrivere una favola per adulti e bambini sulla procreazione medicalmente assistita. Il libro oggi esiste, si chiama “Fivetta, la cicogna provetta”, è stato illustrato da Simona Peres e verrà stampato se la campagna di crowdfunding lanciata sul web (e che termina il 31 dicembre) andrà a buon fine.

“La favola – spiega Silvia – è pensata per le persone che hanno bisogno di sognare in un momento di difficoltà e impossibilità. Nello specifico, si rivolge alle donne e agli uomini che affrontano il doloroso percorso della fecondazione assistita, un mondo che conosco benissimo. A 28 anni ho scoperto di essere sterile, che anche mio marito lo è, e che sono anche poliabortiva per tutta una serie di problemi legati alla tiroide e alla coagulazione del sangue. Un paradosso, quasi: dagli esami che ho voluto fare preventivamente è emerso che nel caso fossi rimasta incinta, avrei perso mio figlio. Ma incinta, essendo sterile, non potevo rimanere“.

Nonostante la mancata accettazione della sterilità, Silvia non ha comunque voluto perdere tempo: “Mi sono buttata a capofitto tra stimolazioni ovariche e ormoni, perché l’obiettivo era comunque quello di diventare madre, sebbene non avessi fatto pace con l’incapacità del mio corpo di fare da sé. E non mi sono mai fermata. Nel giro di tre anni ho tentato un’intrauterina, due Icsi e un criotransfer. Nel frattempo, io e mio marito abbiamo intrapreso e concluso il percorso per l’adozione, che oggi è ancora nei progetti”.

Fatto sta che all’ultimo tentativo, l’embrione ha attecchito ed è rimasto: “Nove mesi durissimi a letto, tra progesterone e anti-coagulanti, durante i quali ho aperto un blog che mi ha consentito non solo di tenere un diario ma anche di entrare in contatto con altre donne nelle mie condizioni. Fino a un cesareo elettivo tre settimane prima del termine, dopo il quale, con Santiago in braccio, ho finalmente creduto che fosse tutto vero”.

Ha pensato invece di essere nel bel mezzo di un sogno, Silvia, quando sette mesi dopo ha fatto il test di gravidanza e ha scoperto di essere di nuovo incinta: “Non avevo possibilità, com’era possibile? Una spiegazione scientifica non c’è. So solo che nel luglio scorso è nato Oceano, arrivato come un balsamo a scacciare via parte delle ansie che avevo nei confronti di suo fratello”. Una felicità del tutto inattesa che non cancella con un colpo di spugna i segni lasciati dalla Pma: “Ancora oggi, quando mi annunciano una gravidanza, sto male. Io non ho mai detto ‘sono incinta’. Per proteggere mia nonna le dicevo ‘sono stata incinta’, risparmiandole un pezzo di dolore. E di Santiago ha saputo quando è nato. La fecondazione mi ha lasciato uno stato perenne di tensione, una paura latente. Oltre a non avere certezze rispetto al sogno di un figlio e a sentire la prepotenza del vuoto, subisci il tabù sociale: perché gli altri, sia quando non ne parlano che quando parlano troppo, sono comunque violenti nel non sapere come comportarsi, nel rapportarsi sempre in modo inadeguato. Senza contare che la coppia deve imparare a fermarsi“.

 

 

 

 

 

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