Filippo, maestro dislessico (e non solo): “La mia rivincita sulla scuola”

Filippo Barbera

Bosco era bolla, quando andava bene. Sette più tre non era automatico che facesse dieci. La parola dettato, il più delle volte, diventava “datato”. Senza contare quanto fosse difficile scrivere dentro le righe, con le lettere dritte, entro i margini. Ma il 29enne Filippo Barbera, vicentino, dal 2011 insegna alla scuola primaria. Un sogno, quello di diventare maestro, maturato in terza media, alla fine di quel grande “buco nero” che è stata per lui la secondaria di primo grado, dove è mancata del tutto la sensibilità degli insegnanti. Filippo ha scelto di insegnare come forma di riscatto da una scuola che per alcuni anni non l’ha capito né sostenuto, come rivincita verso un’istituzione che non supportava la sua voglia di imparare, nonostante tutto. E lo ha raccontato a novembre 2017 a Rimini durante i tre interventi che terrà al convegno “La qualità dell’inclusione scolastica e sociale” organizzato dal Centro studi Erickson.

Sono dislessico, disortografico, disgrafico e discalculico – racconta -. Già in prima elementare, per fortuna, si erano accorti che qualcosa non andava. La diagnosi è arrivata due anni dopo, per poi essere confermata all’Università, dove mi è stato anche detto che nel tempo sono riuscito a trovare tutte le strategie per compensare”. Strumenti che Filippo ha inizialmente adottato in linea generale, per poi cucirseli addosso mano a mano che capiva che cosa funzionava e che cosa no: “Certo è che quando sono arrivato alle superiori, vittima della stigmatizzazione che avevo vissuto alle medie, ho rifiutato qualsiasi aiuto. Gli strumenti compensativi, infatti, li percepivo come marcatori della mia diversità. Ma poco importa: la cosa fondamentale è che i ragazzi con Dsa possano avere tutte le possibilità che spettano loro anche in base alla legge del 2010 e che i docenti, oltre a una certa empatia e attenzione, siano formati sulla materia”.

Filippo, che è anche autore di due libri sul tema (“Un’insolita compagna la dislessia” e “Con-pensare i DSA”), oggi dalla cattedra vive il suo disturbo da un doppio punto di vista: “Quando ho a che fare con alunni Dsa, rivivo attraverso loro tutta la fatica che ho fatto per accettare il mio problema. Allo stesso tempo si creano bellissimi rapporti di empatia nei quali io posso supportare loro portando la mia esperienza. Mi capita, per esempio, di mostrare i miei vecchi quaderni per dare loro un messaggio di speranza. Essere coinvolto in prima persona in questa materia fa sì che intorno a me, tra i colleghi, si crei una certa sensibilità. Ma il lavoro da fare, a scuola, è ancora tanto”.

E quando i genitori lo contattano (anche attraverso i social), la domanda ricorrente non riguarda gli strumenti compensativi ma la motivazione: “Le mamme e i papà dei ragazzi delle medie e delle superiori mi chiedono come far recuperare interesse e curiosità verso la scuola ai propri figli. Io parto sempre da me, raccontando il bisogno di riscatto che per anni sono andato cercando. Attraverso le loro testimonianze mi rendo sempre più conto che per quanto la scuola, rispetto a quando ero uno studente io, abbia fatto indubbi passi in avanti, sul fronte della motivazione c’è ancora uno scoglio altissimo. Eppure, per quanto etichettati in negativo, i Dsa dopo aver accettato il proprio disturbo mettono in campo risorse incredibili che sarebbero utilissime anche agli altri”.

Associare, figurarsi alcuni concetti, collegare – strategie usate per riuscire nello studio – potrebbero infatti essere patrimonio di tutti: “Non siamo malati, questo bisogna fare capire. Io ho ancora in mente i due momenti peggiori della mia carriera scolastica, entrambi alle medie. Il primo riguarda tutte le volte in cui gli insegnanti mi invitavano a leggere più dei compagni, visto che non ne ero capace. O a registrare la mia voce per riascoltarla e assistere allo strazio al quale la mia classe era costretta ogni volta che leggevo io. Il secondo è stato l’orale dell’esame di terza media, durato un minuto. Mi è stato chiesto quando fosse iniziata la Grande Guerra. Dopo aver risposto ‘1914’, mi hanno fatto uscire: avevano già deciso in anticipo con quale voto avrei passato l’esame. Un’umiliazione totale, come se non potessi nemmeno dimostrare che cosa avevo imparato”.

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