Figli allo stadio: “Portateli ma state lontani dalle curve”

Non è facile coltivare la passione per la propria squadra del cuore insegando al contempo ai propri figli a stare lontani da certe logiche che nel tifo e in campo, purtroppo, imperversano. Non lo è stato per Claudio Baratta, autore del libro “Il Bologna di padre in figlio. Diario di una passione che non conosce retrocessioni” (Giraldi Editore) che domenica 17 settembre alle 18 presenterà all’interno del San Lazzaro Book Festival, nella corte del Palazzo comunale. Al centro della sua biografia e del suo racconto c’è il figlio Mattia, oggi ventenne, che andò per la prima volta al Dall’Ara quando ne aveva sei: “A lui piacque subito moltissimo. E io, innamorato del Bologna, facevo fatica a non portarlo allo stadio, nonostante le reticenze di mia moglie”. Tutto diverso per le altre due figlie di Claudio, da poco diventate mamme, che non hanno mai aderito – nel corso della loro infanzia e adolescenza – ai colori rossoblù: “Anzi, sono state sempre molto critiche del fatto che la passione mi trascinasse così tanto, fino alle curve dove, di certo, non dominavano i valori che mi appartengono”.

E oggi che Claudio è nonno e che Mattia, dopo aver rischiato di diventare un ultras, “ha messo la testa a posto”, lo sguardo è diventato più critico e obiettivo: “Non rinnego certo la mia fede calcistica, è uno sport che mi prende ancora moltissimo. Ma credo che un genitore, sebbene sia giusto che assecondi l’amore per il calcio dei figli, debba filtrare: spiegando certe dinamiche e stando lontano dalle curve”. Perché per l’autore i valori che un tempo il calcio trasmetteva, oggi sono perduti: “A volte pure io mi chiedo il senso di perdersi dietro a un gruppo di ragazzini in mutande pagati troppo e privi di etica e rispetto. La passione per il Bologna e per il calcio per me ha significato spirito di appartenenza e coinvolgimento emotivo. Ma a un certo punto, consci che è qualcosa di irrazionale, bisogna dare a tutto questo il posto che merita. Rivolgendosi alle cose più importanti, che per me in questo momento sono i miei nipotini”.

Insomma, niente rammarichi: “Sono due anni che non ho più l’abbonamento e non la vivo male. Quando mio figlio ha iniziato a dare segnali preoccupanti rispetto a certe frequentazioni, ho capito che era necessario rallentare. Tra i tifosi ho visto un po’ di tutto: dalla prevaricazione del più forte sul più debole, che è la logica dominante, fino ai saluti maschilisti. Un mondo di disvalori da cui ho sentito di dovermi allontanare”.

E tutto questo si rispecchia, inesorabilmente, nei campetti di provincia dove giocano bambini e ragazzini: “Anche Mattia per nove anni ha giocato, anche io per molto tempo ho visto cosa combinano i genitori sugli spalti. Una volta sono stato protagonista di un episodio spicevole, un genitore mi si è avventato addosso durante una partita. Spesso, in quelle realtà, il coinvolgimento emotivo non è frenato dalla razionalità. Altrettanto spesso la sofferenza di molti genitori viene scaricata lì: le famiglie investono aspettative e sogni infranti nella crescita calcistica dei figli, andando incontro a delusioni e frastrazioni. Un fanatismo che la dice lunga sulla società in cui viviamo”.

 

 

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