“Il mio bambino si comporta da femmina”: la battaglia di Camilla per i figli “gender fluid”

Camilla Vivian
Camilla Vivian

“Ma che bella bambina!”
“Sono un bambino”.
“Dai, non prendermi in giro”.
“Davvero, mi chiamo Giovanni”.
“Secondo me stai scherzando”.

Potebbe essere un classico dialogo tra Giovanni (il nome è di fantasia), che ha nove anni, e una persona qualunque incontrata per strada. Conversazioni che Camilla Vivian, la mamma di Giovanni, ha imparato anche se con molta fatica a lasciarsi alle spalle, perché si sa che gli adulti spesso non eccellono in sensibilità. Camilla è di Firenze, ha tre figli e fin da quando il suo secondogenito era piccolo, ha vissuto con estrema normalità il fatto che preferisse vestiti “da femmina”, giochi “da femmina” e amicizie al femminile. Sull’identità gender fluid, poi, si è messa a studiare, fino a quando – anche per condividere la sua esperienza con altre famiglie – ha aperto il blog “Mio figlio in rosa”.

Sono quasi una ventina le famiglie che hanno figli con un’identità di genere non ancora definita o comunque non corrispondente al sesso di appartenenza e che negli ultimi mesi l’hanno contattata (le mail di questa famiglie sono ovviamente molte di più, oltre alle telefonate): “Si stima che i minori in queste condizioni siano l’1% della popolazione – racconta Camilla – il che significa, per esempio, che in una scuola con dieci classi, ci sono almeno due casi”. Eppure, trovarsi davanti a un maschio che fa danza classica o una femmina che veste solo di blu e porta i capelli rasati, alla maggior parte delle persone mette ancora paura: “La nostra esperienza è migliore di quanto si possa pensare. Mio figlio è sempre stato molto femminile e non è stato mai necessario doverlo spiegare a insegnanti e compagni. Viene accettato così com’è, senza troppe domande. Certo, la questione è importante e andrebbe affrontata da consultori, scuole e pediatri, non solo da una mamma come me che apre il suo personalissimo blog”.

Camilla, prima di trovarsi di fronte alla questione, sebbene aperta di mente non era così preparata: “Sulla transessualità non sapevo assolutamente nulla. Ero arrivata persino a pensare che potesse essere lo sfizio di qualche omosessuale che, a un tratto, volesse pr0vare a stare nei panni dell’altro sesso. Insomma, vuoto totale. Ecco perché, con le persone che faticano a capire, non vado giù pesante. Chi non si è mai posto il problema potrebbe avere, in effetti, molte perplessità e dubbi. Ecco perché trovo sia necessario spiegare e raccontare. Qui parliamo dell’infinità di ognuno di noi, delle varie sfaccettature che l’identità degli individui può assumere. Mettere etichette è difficile, schematizzare impossibile“.

Eppure, anche alcune associazioni straniere che Camilla, per vederci meglio, ha contatto o alle quali si è iscritta, cascano secondo lei in un tranello pericoloso: “Un giorno mi sono messa a compilare on-line un modulo nel quale mi si chiedeva il nome che mio figlio ha scelto per definirsi al femminile. Una richiesta che, per quel che riguarda il nostro caso, ho trovato esagerata: Giovanni non ha mai espresso la volontà di farsi chiamare diversamente, se non con il suo nomignolo. Temo che certi genitori, senz’altro illuminati per un verso, dovrebbero valutare con davvero moltissima attenzione il personale caso del figlio o della figlia, senza sentirsi pressati da chi chiede loro di mettere una x su una casella, mettendo in conto che dopo qualche anno, magari nell’adolescenza, quegli stessi figli possano invece decidere di tornare indietro, ricominciando a definirsi al femminile o al maschile in base al sesso di appartenenza. Io preferisco, e il caso di mio figlio me lo permette, essere più elastica e flessibile, dare tutte le scelte a mio figlio senza, per ora che è ancora piccolo, ingabbiarlo in uno schema”.

Certo, nella vita quotidiana qualche ostacolo si incontra: “La classe di Giovanni sta preparando uno spettacolo teatrale. Mio figlio interpreterà Dedalo. L’insegnante ha stabilito che i maschi dovranno indossare il leggins neri e le femmine quelli bianchi. E io ho chiesto: ‘E Giovanni?’. A volte ci si perde in queste sciocchezze: a prescindere dal nostro caso particolare, perché dover sempre dividere e differenziare tra maschi e femmine? Come quando la gente insiste nel non credere che mio figlio sia un bambino, anche se lui lo ribadisce e dice il suo nome. Con il tempo abbiamo preso a fregarcene e a volte mi capita di tagliare corto spiegando che siamo alternativi. Certo, la fatica è tanta: per proteggere i nostri figli non troppo definiti, noi genitori siamo sottoposti a commenti e critiche, tra chi ci accusa di dare loro troppa libertà, chi pensa che i nostri bambini vogliano solo stare al centro dell’attenzione e chi pensa che abbiamo sbagliato tutto. E più sono amici, più ti rompono le scatole”.

La psicologa che segue Giovanni, invece, spiega sempre a Camilla che i bambini gender fluid vagano in una zona grigia da cui, probabilmente, usciranno più avanti: “Non si può ancora parlare di disforia di genere, nel caso di mio figlio. Non vedo in lui, infatti, un disagio rispetto al proprio corpo, che invece dovrebbe presentarsi per confermare la diagnosi. Ho letto storie di bambini che già a tre anni manifestavano un’opposizione aperta anche al solo fatto che li si chiamasse al femminile se erano femmine e al maschile se erano maschi. Sono casi più netti, che sicuramente impongono altre scelte da parte dei grandi, come la transizione sociale”.

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