Benedetta Tobagi a Ravenna: “Gli alunni stranieri non sono il problema”

Benedetta Tobagi (foto Fiorenza Stefani)
Benedetta Tobagi (foto Fiorenza Stefani)

“Sono state molte di più le cose che non mi aspettavo, rispetto a quelle che avevo messo in conto. Questo viaggio è stato un’esperienza spaesante, nel senso migliore del termine. Sono partita carica di pregiudizi che non credevo di avere. E la prima grande scoperta è stata prenderne consapevolezza”. Benedetta Tobagi, scrittrice e giornalista, non sapeva bene di cosa si parlasse, quanto sentiva dire che i bambini italiani, a scuola, restano indietro con il programma a causa degli immigrati. O, ancora, che nelle classi è giusto che gli stranieri non superino il 30% del totale, come da circolare ministeriale. Sempre che si riesca a capire se gli stranieri sono i bambini nati all’estero o tobagianche quelli nati in Italia da genitori non italiani. L’autrice presenterà “La scuola salvata dai bambini. Viaggio nelle classi senza confini” (Rizzoli) venerdì 31 marzo alle 18,30 al Caffè Letterario di Ravenna (via Diaz 26) nell’ambito della rassegna “Quattro chiacchiere al caffè” organizzata da Media Romagna.
Benedetta, “la scuola, da sola, non può vincere la sfida dell’integrazione”. Cosa manca, secondo quello che ha visto?
“Il coinvolgimento con il mondo fuori, che invece non a caso esiste nelle scuole multiculturali che funzionano. Padova, in questo senso, è un esempio: cercare e attivare la comunicazione con l’esterno significa anche dare qualcosa al quartiere, al territorio. Significa che la scuola diventa un luogo di educazione per gli adulti oltre che per i bambini, che si traforma nel posto dove tutti imparano a superare la diffidenza verso il diverso, dove si supplisce a ciò che i genitori non riescono a dare ai figli, dove si elaborano i conflitti”.
Il clima che si respira fuori rispetto al tema immigrazione come incide su quello che avviene dentro?
“Moltissimo. Ho visto una corrispondenza incredibile tra le due dinamiche, soprattutto dopo che i bambini, a partire dalla terza elementare, iniziano a perdere duttilità e curiosità e vengono influenzati da quello che sentono dire a casa.  Nel libro racconto di una bambina rumena la cui migliore amica è africana. Quando il padre inizia a dirle che l’amica è schifosa e le ha passato i pidocchi, cosa tra l’altro non vera, lei si trova in un conflitto incredibile con se stessa. Ecco, gli insegnanti devono avere una grande capacità di spostare gli alunni dal punto centrale del conflitto. Per farlo, ci vuole molto coraggio”.
I maestri e le maestre che ha incontrato sono mossi da una vocazione particolare rispetto al tema dell’intercultura?
“Io ho visto insegnanti che mi hanno dimostrato in egual misura motivazione e fatica. Credo che il mestiere di chi insegna contenga per definizione una spinta vocazionale ma enfatizzare questo aspetto, contando sul fatto che i maestri non molleranno e non si volteranno dall’altra parte se messi di fronte alle difficoltà e alla complessità, distoglie la nostra attenzione rispetto al fatto che questo è un lavoro usurante e di grandi responsabilità. Non tutte le persone possono avere una predisposizione a stare dietro una cattedra. Ma il sistema non screma e non valuta questi aspetti. Il mio libro, in questo senso, è anche un omaggio a una professione di cui si conosce molto poco”.
Delle paure dei genitori, invece, che cosa è riuscita a cogliere?
“Ho empatizzato con le famiglie, che spesso hanno storie di paure e rabbia non ascoltate. Ma credo sia necessario e giusto disinnescare molti dei focolai di conflitto, spiegando che la scuola non può fare i miracoli e che molte esperienze di segregazione sono emerse quando, a livello strutturale, sono venute a mancare alcune importantissime cose: i mediatori culturali, le risorse per la compresenza, i soldi per i corsi di italiano ai bimbi che non conoscono la lingua. Se avessi figli, probabilmente non sarei nemmeno io tranquilla, almeno teoricamente, rispetto al fatto che situazioni complesse come la presenza di tante nazionalità e tanti contesti sociali, in una classe, possono rallentare le attività. Ma prima di tutto è necessario dire che nelle classi cosidette multiproblematiche non sono solo gli stranieri a portare difficoltà: non dimentichiamo chi è dislessico, chi ha una disabilità, chi vive un disagio familiare. Nelle scuole si riflette la vita delle persone, tutto qua. Il punto è dotare le scuole degli strumenti per gestire la complessità. Alla “Manzoni” di Brescia i problemi sono iniziati quando tutto questo è venuto meno e gli italiani hanno iniziato a scappare, rendendo la scuola al 98% composta da stranieri”.

Schoolchildren embracing happy. Multi cultural racial classroom.

Qual è il rovescio della medaglia?
“Generalizzare è impossibile. Mentre compivo questo viaggio, una volta che scoprivo quella che credevo una verità, alla tappa successiva i fatti me la confutavano. Ma posso dire che la ricchezza educativa che ho respirato nelle classi in cui c’è più varietà è meravigliosa. Lì si impara a godere del successo del gruppo, non di quello dei singoli. Lì la competititività viene meno. Questo non significa semplificare, anzi. Sono consapevole che se a gennaio arriva un bimbo che non conosce l’italiano e che vive al contempo il trauma migratorio, le difficoltà si presentano. Ma ciò che più ho capito lavorando al libro è che il problema non è la presenza degli stranieri ma i tagli che hanno tolto l’indispensabile alle scuole dove ci sono gli stranieri. A Suzzara, nel Mantovano, c’è una scuola multiculturale che funziona proprio perché le risorse sono state potenziate”.
Straniero, alla fine, che cosa significa?
“Tutto e niente. Tra gli stessi stranieri ci sono provenienze diverse e contesti sia culturali che sociali molto differenti. Ho visto scuole in cui il patto educativo funziona più con le famiglie straniere che con quelle italiane: perché i genitori, magari nei casi in cui le strutture familiari tengono, in cui l’asimmetria bambino-adulto resiste e in cui la scuola è vista come un valore e rispettata, ci tengono. Ho visto anche, soprattutto al Sud, situazioni in cui gli stranieri – cinesi e srilankesi – fanno da traino nelle comunità in cui il disagio è forte. Insomma, altro che pregiudizi”.

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