“Andiamo a comandare”.
Il piccolo di casa, due anni e mezzo, è entrato a pieno titolo nel tormentone musicale partito qualche mese fa. Forse fomentato dalla sorella, forse convinto che io sia una mamma juke box, chiede più volte al giorno di ascoltare il pezzo di Fabio Rovazzi, esibendosi – appena accontentato – in un contest solitario di break dance.
“Andiamo a comandare” fa, del resto, magicamente rima con “andiamo a pensare”, che da noi è un must. Copiando spudoratamente il metodo delle sue educatrici del nido, ogni volta che fa un brutto capriccio o porta in scena una protesta insensata, lo invito gentilmente a raggiungere la sua stanza, a sedersi sul tappeto verde fiorato e a pensare finché non si è calmato. Operazione dopo la quale è autorizzato a fare ritorno tra noi comuni mortali. All’asilo è un’operazione che viene proposta soprattutto in caso di morsi, anche questi un must sotto i tre anni, laddove il “morditore”, dopo aver aggredito la sua preda, viene fatto accomodare in un’altra zona – appunto – a pensare.
Pur chiedendomi che significato possa attribuire il nanetto al verbo pensare, finora tutto pare funzionare a meraviglia. Tanto che lui, spesso, anticipa la mia richiesta. Qualche sera fa, dopo aver schifato la cena, ha fatto segno di voler scendere dal seggiolone:
“Vado a pensare, mamma?”
“Sì grazie, sei davvero gentile”.
In un’altra occasione, dopo averlo mandato a pensare accompagnandolo con due miei sonori urli, è corso allegro e sorridente in camera sua – come se gli avessi dato un premio – ed è tornato dopo trenta secondi felice come una Pasqua:
“Ecco mamma, ho pensato”.
Non devo essere l’unica, a godere di questa magia (senz’altro temporanea). Francesca Broccoli, la psicoterapeuta bolognese che ha scrittto un bellissimo libro sulla rabbia dei bambini, durante un incontro, un mesetto fa, ha raccontato come, con suo figlio, l’operazione sia più o meno la stessa: “Andiamoci a calmare”.
E voi, avete mai provato?
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta