La Regione ripensa all’adozione: “Bimbi sempre più grandi e con patologie”

affido, adozioneTutto cambia, anche l’adozione. E per stare al passo, è necessario interrogarsi e riflettere. Ne è convinta Tiziana Giusberti, psicologa e responsabile adozione e affido del dipartimemto cure primarie dell’Ausl di Bologna, nonché responsabile scientifica del seminario e del corso di formazione organizzati dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con l’Ordine professionale degli assistenti sociali dell’Emilia-Romagna. “Promuovere la cultura dell’adozione: gli attori a confronto” partirà il 12 dicembre a Bologna (dalle 9 alle 14, terza Torre di via della Fiera 8) con una giornata aperta a tutti dedicata anche a fare il punto sullo stato delle adozioni in Regione.
Dottoressa, cos’è cambiato, principalmente, negli ultimi anni?
“Sono cambiati prima di tutto i bambini: sono sempre più grandi, sempre più complicati e portatori di patologie psico-fisiche. A volte, nelle loro terre d’origine, sono già stati protagonisti di fallimenti adottivi. E l’aspettativa di avere un figlio, legittima e umana, spesso si discosta dal bisogno di genitorialità che questi bambini hanno. Allo stesso, sono cambiate le famiglie: le coppie che arrivano da noi hanno in genere un’età più avanzata di un tempo: perché per vari motivi hanno provato ad avere un figlio biologico tardi”.
Le coppie che incontrate hanno già elaborato il lutto di non poter avere figli propri?
“Non sempre: è uno degli aspetti che andiamo a indagare durante l’iter di valutazione che inizia dopo il corso preparatorio di gruppo. S tratta di dodici ore nelle quali diamo ai genitori che si candidano gli elementi per operare una scelta consapevole. La genitorialità adottiva è una genitorialità sociale, dove si accoglie un figlio lasciato da altri genitori o tolto ad altri genitori, esperienza di cui restano evidenti segni. Una genitorialità che richiede una preparazione e una consapevolezza molto forti”.
Durante il corso si fa già un’operazione di scrematura?
“Sì, anche se piccola. Dopo il corso, le coppie vengono messe in lista e qui inizia un tempo di maturazione ed elaborazione che ritengo importantissimo: qualche mese per l’autoriflessione, per fare evolvere e maturare il progetto di genitorialità dentro di sé. Da fuori questo tempo è spesso considerato macchinoso e burocratico: trovo invece che, con i giusti limiti, sia propedeutico a una scelta più pensata”.
E dopo, che cosa succede?
“Inizia la valutazione della coppia da parte di psicologi e assistenti sociali: un periodo di sei/otto incontri nei quali si indagano la motivazione, la flessibilità, lo spirito di accoglienza e tante altre questioni. Nei quali le figure professionali costruiscono insieme alle coppie il progetto adottivo. Noi diciamo sempre che staremo vicini a loro per un pezzo ma poi la vita sarà nelle loro mani: se sbaglieranno, sarà un danno per tutti, non solo per il bambino. In questo percorso, capita che la donna resti incinta: evidentemente, attiviamo delle aperture mentali”:
Capita anche qualcuno abbandoni?
“A volte capita ma noi siamo soliti esplicitare alla coppia i suoi limiti durante il percorso, non alla fine. Quando consegniamo la relazione finale agli aspiranti genitori e poi al Tribunale, che dovrà dare l’idoneità, non ci sono in genere grosse sorprese”.
Ci sono aspetti da migliorare, in questo percorso?
“Sì, molti. Anche nella qualità delle relazioni sulle quali il Tribunale si basa per il giudizio. Ma anche nell’abbinamento, cioè la scelta di dare un bambino a una determinata famiglia piuttosto che a un’altra. Capitano situazioni in cui i servizi avrebbero bisogno di capire meglio le esigenze dei minori per scegliere i genitori più giusti. Servizi, tribunali, famiglie ed ednti autorizzati alle adozioni internazionali dovrebbero lavorare di più insieme: farlo da sé o, addirittira, uno contro l’altro, nuoce a tutti”.
Sul post-adozione, di cui lei è esperta, ci sono modelli auspicabili?
“A Bologna ci confronteremo anche su questo aspetto. A Casalecchio, che è il mio distretto, ho voluto e attuato un modello che si basa sul sostegno alle famiglie nel tempo, sia individuale che di gruppo. Dal momento in cui il bimbo arriva a quando i figli sono ormai grandi, non lasciamo soli i genitori. La mia ipotesi è che così si possano prevenire i fallimenti adottivi, che dal 2002 al 2014 in Emilia-Romagna sono stati 87. Accogliere un bambino ferito richiede da parte delle famiglie una grande capacità di affidarsi, chiedere aiuto e fare da guida a chi sta passando un’esperienza simile”.
Come si realizza il sostegno?
“Con incontri organizzati con le singole famiglie per aiutarle a capire il bambino, le sue difficoltà, i suoi comportamenti spesso oppositivi, provocatori, di chiusura. Ma anche per aiutarle a non fare scelte dettate dalla stanchezza e dal senso di impotenza e inadeguatezza. Un esempio? Se un bambino arriva in famiglia in agosto, inutile pretendere che cominci la scuola in settembre. Nell’auspicio della normalizzazione, si richia di fare danni. Organizziamo anche momenti di incontro di gruppo, divisi per fasce d’età. E siamo disponibili ad incontrare i genitori al bisogno”.
Si potrebbe replicare, questo modello?
“Me lo auguro. La legge italiana non lo impone, tanto è vero che altre esperienze simili esistono ma a macchia di leopardo. A Casalecchio i genitori hanno fondato l’associazione ‘Ci vuole un villaggio’ per sostenere il servizio: questo ha aiutato”.
Per prevenire i fallimenti adottivi si può intervenire, secondo lei, anche in altro modo?
“I fallimenti sono pochi ma sul lavoro pesano molto. Le famiglie in questione sono spesso accomunate dal non avere espilicitato il loro reale obiettivo. Ho in mente una coppia, per esempio, che aveva perso un figlio ed era così concentrata sulla propria sofferenza e il proprio dolore da non riuscire a lasciare spazio per altro. La difficoltà che incontriamo è quella di andare oltre alle parole, di capire cosa c’è dietro”.

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