Per capire meglio il fenomeno della violenza, non basta essere donne. E nemmeno far parte di un corpo di polizia. Ne è convinta Ornella Lusa, vice sovrintendente della Polizia di stato in forza alla squadra mobile della questura di Ravenna, per sedici anni parte della squadra speciale che si occupa di reati sessuali e ai danni di minori. Lusa, che in questi anni si è laureata in Scienze criminologiche e ha concluso un master sulla psicologia del bambino abusato, sarà sabato 19 novembre alle 15,30 all’inaugurazione della mostra del Mariani Lifestyle di Ravenna che riprende la campagna #questononèamore. Dove parlerà anche di violenza assistita, quella che i bambini respirano in casa – e quindi subiscono – quando il padre maltratta la madre.
Un problema di cui si parla ancora poco. Perché?
“Perché, prima di tutto, per molti anni c’è stato un gap legislativo che è stato poi colmato con la convenzione di Istanbul e con la legge 119 per il contrasto alla violenza di genere. Oggi, per il codice penale italiano, agire maltrattamenti fisici e psicologici alla presenza di un minore è considerato un aggravante del reato. Il bambino che magari è nella sua stanza ma sente la porta sbattere, il pugno sul tavolo, la mamma piangere, è considerato vittima a tutti gli effetti, anche se quella violenza non la vede né subisce in maniera diretta”.
Le donne che ha visto in questi anni erano consapevoli dei danni perpetuati ai figli?
“Spesso no. Ho sentito più volte la frase ‘mio marito mi picchia ma è un buon padre: non ha mai toccato i miei figli e porta a casa lo stipendio’. Si tratta di uno dei meccanismi giustificatori e di sopravvivenza con cui le donne che per anni sopportano le violenze tentano di proteggere se stesse e i figli e provano ad andare avanti in quella relazione, nonostante tutto. Il punto è che i bambini, che percepiscono tutto, sono vittime a pieno titolo e svilupperanno probabilmente condotte relazionali violente o comunque inadeguate. Tema che diverse donne, consapevolmente o inconsapevolmente, faticano a riconoscere”.
Colpa della cultura?
“Il retaggio storico-culturale è evidente. A questo vanno però aggiunte quelle forme di difesa che le donne per forza di cose mettono in atto per non soccombere. Meccanismi che, d’altro canto, servono all’uomo per mantenere il legame con i figli e, in parte, per giustificarsi”.
Quanto è difficile approcciare queste situazioni?
“Moltissimo. Ci vuole sensibilità, empatia, preparazione professionale. Anche prima che la legge ce lo imponesse, a Ravenna eravamo soliti ascoltare il minore in audizione protetta, sempre alla presenza di un esperto. Trattandosi di bambini già danneggiati, anche solo una domanda posta male, senza tatto, può avere conseguenze disastrose. Per prevenire ulteriori traumi, tre stanze della nostra questura sono state modificate ad hoc, umanizzate e rese accoglienti con colori adatti, moquette, giocattoli, musica in filodiffusione, poltroncine. Senza contare che ci atteniamo strettamente ai protocolli e alle linee guida quando è ora di entrare nel merito del caso, che non contempla solo la parte inquisitoria ma anche, appunto, quella di sostegno alle persone coinvolte”.
Secondo lei è giusto, come spesso si dice, che sia una donna ad occuparsene?
“Non necessariamente. Oggi la nostra sezione speciale è composta da due donne e tre uomini. L’importante è che le persone siano formate. Non è detto che una donna, solo in quanto tale, abbia le capacità giuste”.
Resta la piaga delle mancate denunce. Solo una donna su dieci, dicono le statistiche, lo fa. Qualcosa sta cambiando?
“Negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Le donne, poco a poco, stanno acquisendo una maggior consapevolezza di se stesse e del proprio valore. Anche grazie a una normativa che ha fatto passi da gigante, iniziano a fidarsi del sistema. Il poliziotto non è più la figura asettica di un tempo, è una persona capace di tendere una mano. Resta, ovviamente, il senso di paura e di vergogna quando si deve decidere se denunciare. Resta il terrore della solitudine, di essere abbandonate, di eventuali ritorsioni. Per questo serve un lavoro di rete: noi, il pronto soccorso, i centri anti-violenza, i servizi sociali. Siamo qui, tutti insieme, per un’unica causa: recuperare la donna e i suoi figli, punire i colpevoli se ce ne sono”.
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Commenti:
Congratulazioni dr.ssa, è la pura verità…!
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