No, la gravidanza non è un deterrente della violenza. Almeno, non nelle relazioni intime. Eppure, dell’argomento, si parla ancora troppo poco. A occuparsene da anni è, invece, la psicologa psicoterapeuta di Rimini Maria Maffia Russo, che parteciperà – il 25 novembre alla sala Guido Fanti di viale Aldo Moro 50 a Bologna – al convegno “La violenza domestica in gravidanza” organizzato dalla Regione Emilia-Romagna.
Dottoressa, che dimensioni ha il fenomeno?
“Secondo l’indagine del 2014 dell’Istat, effettuata su un campione di oltre sei milioni e mezzo di donne italiane, che rappresentano il 31% della popolazione femminile tra i 16 e i 70 anni, l’11,8% ha subito violenza dal partner durante la gravidanza. Per il 50% di queste donne, la violenza è rimasta la stessa del periodo precedente la gestazione, per il 23,/% è diminuita, per l’11,3% è aumentata, per il 5,9% è iniziata con la gravidanza e per il 9% si è conclusa nelle prime fasi”.
Tutto il contrario, dunque, rispetto all’idea che la donna incinta sia intoccabile…
“Esatto. Bisogna sfatare il luogo comunque secondo il quale la gravidanza è un fattore protettivo rispetto alla violenza. All’opposto, è un fattore di rischio”.
Ci sono delle spiegazioni plausibili?
“La fisiologia stessa della gestazione rende le donne più concentrare su se stesse, il proprio corpo e le proprie emozioni: l’uomo maltrattante vive l’arrivo di un figlio come causa di un allontanamento della donna, che non si può più occupare di lui come prima. Da qui, la rabbia verso una gravidanza magari non desiderata, la richiesta di interromperla, la gelosia verso il nascituro. D’altro canto la donna maltrattata, che magari prima tentava di corrispondere a ogni aspettativa del compagno (“voglio essere tutto ciò che tu vuoi”), durante la gravidanza perde quella prospettiva”.
Il senso di vergogna si amplifica a causa dell’attesa?
“Sì, lo vediamo dal fatto che le donne maltrattate in gravidanza accedono più tardi all’assistenza sanitaria e saltano più appuntamenti. In casi estremi, a causa delle percosse perdono il figlio. Ma ce ne accorgiamo quando è tardi. Siccome le donne fanno molta fatica a chiedere aiuto, io insisto sempre sulla preparazione, l’attenzione e la sensibilità degli operatori: la donna è obbligata, a un certo punto, ad accedere ai consultori o ai reparti di ostetricia. Se incontra qualcuno che intercetta la sua storia, qualcuno in grado di riconoscere i segni e sintomi di una violenza, ne abbiamo metà della fatta: è un’opportunità che il sistema sanitario, per aiutarla, non deve perdere. E che anche la donna ha per raccontare, denunciare, trovare aiuto”.
I vissuti sono bene o male gli stessi, nelle donne che incontra?
“Le storie sono molto diverse tra loro. Certo, alcune dinamiche ricorrono. Ho in mente una donna che voleva portare avanti la gravidanza, a differenza del marito. Grazie al fatto di avere colto che dietro c’era una relazione violenta, l’abbiamo sostenuta, fino alla separazione. Ma ci sono anche casi contrari: come quello delle donne che vogliono abortire, diversamente dai compagni, perché per i figli non vogliono padri del genere”.
Come si ripercuote, tutto questo, dopo la nascita?
“C’è una significativa correlazione tra la violenza subita in gravidanza e la depressione post-parto. E quando vediamo una sintomatologia depressiva o da disturbo post-traumatico da stress, spesso osserviamo anche l’aumentare dell’uso di alcol, fumo e sostanze. Ma non è un danno solo alla salute della mamma. Lo è anche alla relazione tra lei e il bambino, in molti casi completamente compromessa perché la donna non ha le risorse e l’energia per occuparsi del figlio”.
Servirebbe una prevenzione ad hoc?
“In Canada già da anni, negli ambiti sanitari, l’anamnesi prevede anche uno screening sulla violenza. Almeno una domanda sul tema, per capire se ci sono condizioni di rischio, anche in Italia alle donne incinte andrebbe rivolta. Qualcosa, poco a poco, sta avvenendo anche da noi. Anche sulla spinta della raccomandazione del 2014 dell’Oms, che nelle ultime linee guida ha inserito il tema della violenza in gravidanza, la ministra Beatrice Lorenzin ha sottoposto al Parlamento una mozione ad hoc”.
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