Prima guardano, poi toccano. Iniziano a confortare il bambino e, infine, a prendersene cura. Sono i genitori i cui figli, perché nati prematuri o con problemi, vengono ricoverati alla nascita nella Terapia Intensiva Neonatale dell’ospedale “Infermi” di Rimini, il reparto diretto da Gina Ancora, che sarà tra i relatori del convegno in programma venerdì 30 ottobre al Centro Congressi Sgr. Un convegno che prenderà in esame la cultura delle Tin sempre aperte alle famiglie, senza orari di ingresso affissi sulla porta, alle quali possano accedere anche fratellini e sorelline, nonni e nonne e dove le famiglie siano sottoposte a un programma di training che insegni loro molte cose: a gestire quel momento critico, ad approcciare il bambino, a colmare i suoi bisogni, anche in un’ottica preventiva.
Dottoressa, il modello di Tin sempre aperta e attenta ai bisogni delle famiglie applicato a Rimini quanto è diffuso in Italia?
“Solo il 30% delle Tin lo applica. In Gran Bretagna, Francia e Svezia è prassi comune, in Italia manca una vera cultura in materia. La neonatologia è una scienza relativamente nuova e in questi trent’anni ci si è concentrati sull’obiettivo di strappare il bimbo alla morte. Tutta l’attenzione è stata messa sulla tecnologia, dai cateteri ai ventilatori meccanici, trascurando l’aspetto relazionale ed emozionale”.
Qual è il concetto di fondo che muove la vostra filosofia?
“L’idea che il bambino, anche se molto piccolo o malato, nelle settimane e nei mesi che passa nella Tin cresce lo stesso in fretta. Ma lo fa in un ambiente non consono alle sue esigenze. La salute psicologica della sua famiglia incide sul suo sviluppo, ecco perché noi siamo chiamati a curare anche questo aspetto. Un’indagine effettuata su due gruppi di famiglie, solo una delle quali aveva ricevuto un’educazione tesa a insegnare come si accudisce un bambino e come si leggono i suoi segnali, ha dimostrato tramite risonanza magnetica che la sostanza bianca del cervello si era più sviluppata nei figli dei genitori che erano stati formati”.
Il vostro lavoro ha anche un impatto a lungo termine?
“Sì, la scienza ce lo conferma. Molti bambini che sono passati per le Tin, in età scolare hanno problemi di apprendimento, sono autolesionisti, si chiudono in se stessi. Questo ci fa dire che dobbiamo lavorare non solo per sollevare la famiglia in un momento così difficile e per far sopravvivere il neonato ricoverato ma anche per assicurare al bambino che verrà una vita sana da tutti i punti di vista”.
Chi sono i mulini a vento contro cui lottare?
“Bisogna cambiare la cultura di medici e infermieri, collaborare con i reparti di ostetricia per preparare già le mamme ricoverate che molto probabilmente avranno bambini ricoverati nella Tin. Il nostro personale resta per molto tempo a contatto con le famiglie:è fondamentale, quindi, avere delle regole di comunicazione. Non si può lasciare tutto al caso. Il cambiamento, oltre che da un’opera di sensibilizzazione, deve passare poi dalle leggi: noi abbiamo dimostrato che l’apertura 24 ore su 24, il libero accesso dei familiari e il programma di educazione dei genitori sono imprescindibili per fare un buon lavoro”.
Quali sono le principali esigenze avanzate dai genitori che incontrate?
“Essere accompagnati in quello che io chiamo sempre il viaggio all’interno della Tin. Con gradualità mamme e papà devono prendere confidenza con il reparto, mettere una mano dentro l’incubatrice, praticare la marsupioterapia, consentire al bimbo di attaccarsi al capezzolo nonostante il respiratore. L’allattamento, in questo caso, è una straordinaria occasione affinché il piccolo senta fino in fondo la presenza della sua famiglia. Che noi cerchiamo di coinvolgere e valorizzare. A Rimini è nata l’associazione ‘La prima coccola’. Presto inizieremo un percorso affinché i genitori siano partecipi delle revisioni dei protocolli assistenziali. I loro bisogni sono parte integrante del nostro lavoro”.
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