Insegnare con la mascherina, accanto a un letto d’ospedale, a un ragazzino che ha l’ago della chiemioterapia infilato nel braccio e chissà se sopravviverà. Oppure spiegare Manzoni mentre il tuo alunno vomita ma ti chiede di continuare. A Daniela Di Fiore, insegnante di lettere al reparto di Oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma è costato molto scrivere “Ragazzi con la bandana. La scuola come cura in ospedale”, il libro uscito per Infinito edizioni e il cui ricavato andrà a sostegno dell’Agop (Associazione genitori oncologia pediatrica). Perché è il diario del suo primo anno senza banchi né cattedre, laddove la vita è appesa a un filo ma la voglia di imparare degli studenti no. Pieno di emozioni, pianti condivisi con i colleghi e pacche sulle spalle a mamme e papà.
Daniela, uno si chiede: ma chi gliel’ha fatto fare?
“Ci vuole una forza incredibile. A volte mi chiedo anche io come faccio a reggere il colpo. In questo senso l’impatto del primo anno è stato fortissimo, ho dovuto faticare molto per abituarmi a quella realtà. Ma i ragazzi, fin da subito, mi hanno trasmesso un gran senso di normalità: la loro preoccupazione non è la chemio ma la scuola. Sono loro a mettere noi professori a nostro agio, a dirci che non vogliono essere trattati da malati”.
Voti, pagelle, note, urla, verifiche: esiste tutto questo nella scuola in ospedale?
“Cerchiamo di mantenere intatto, della scuola tradizionale, tutto quello che si può. Riguardo alle valutazioni, per esempio, non sarebbe corretto né a livello didattico né a livello pedagogico gonfiare i voti. Mi è capitato, dopo aver dato un nove o un dieci davanti a compiti perfetti, sentirmi dire dall’alunno se il voto era meritato o se l’avevo messo per pietà”.
Quando si finisce di lavorare e si torna a casa, si stacca la spina?
“A volte sì, altre no. All’inizio di questa esperienza non riuscivo, mi chiudevo in me stessa. Poi, con l’aiuto dei medici e degli psicoterapeuti, poco a poco ho ripreso possesso della mia vita: ho un marito, una casa, molti interessi. Amo andare alle mostre, a teatro, allo stadio. A un tratto ho capito che non avrebbe avuto senso rinunciare. Mi sento quotidianamente con i ragazzi, sia su Facebook che con WhatsApp, ma il più delle volte provo a sconnettere cervello e anima dai loro problemi. Che sono anche i miei”.
Come insegnanti ci si sente in un altro mondo rispetto ai colleghi che sono fuori?
“No, mi sento come loro. La differenza la fa l’impatto psicologico che su di noi ha la situazione nella quale insegniamo. Le prime volte ero impressionata dal numero di bandane che vedevo in testa agli alunni. Per questo dico che questo mestiere non fa per tutti: serve umanità, forza d’animo e spirito di volontariato. Io inizio alle nove la mattina ma è capitato di arrivare un’ora e mezza prima perché il mio alunno doveva iniziare la chemio e voleva riuscire a fare lezione prima”.
In che condizioni insegna?
“Se i ragazzi possono, ci mettiamo al tavolo. Altrimenti loro rimangono a letto e noi insegnanti ci sediamo accanto. Se hanno le difese immunitarie molto basse, ci bardiamo dalla testa ai piedi con mascherine, camici e calzari. Dal modo in cui i medici ci dicono di vestirci, capiamo quali sono i valori dell’alunno in quel momento”.
E con i genitori, alle prese con un dolore tanto grande, che rapporto si crea?
“Sono in genere felicissimi del fatto che noi docenti portiamo la scuola in ospedale. Si crea un rapporto di intimità, che spesso travalica il nostro ruolo: con le buone o le cattive notizie, siamo in genere gli unici che si ritrovano cinque minuti da dedicare loro per un abbraccio, uno sfogo”.
Scuola fa rima con futuro: come si fa a mantenere il senso di quel che sarà con ragazzi che, magari, sono condannati a morire?
“La scuola è per definizione terapeutica, la scuola cura. Il nostro dovere è mantenere il senso del domani anche nella consapevolezza che un alunno ha pochi mesi di vita davanti. Ho preparato una ragazza per l’esame di maturità pur sapendo che le mancava una settimana: nella convinzione di voler dare l’esame, lei era sicura che non sarebbe morta. Se studio, pensava, ce la farò. I ragazzi con il cancro si aggrappano a tutto, con le unghie e con i denti. La scuola è la speranza, è la finestra sul mondo”.
La copertina del libro è stata disegnata da Ester Cristofori, l’alunna di Daniela Di Fiore che l’anno scorso si è diplomata al liceo artistico dopo cinque anni avanti e indietro per l’oncologia pediatrica del Gemelli. Ester è una di quelle che ce l’hanno fatta.
Qui è possibile acquistare il libro
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