“Daddy” e “taty”: la fantastica normalità di Luca e Matthew, figli di due papà

Luca e Matthew, tre anni
Luca e Matthew, tre anni

Horace è “daddy”, Cristiano è “taty”. A tre anni e mezzo, i piccoli Luca e Matthew chissà se si rendono conto che la loro non è una famiglia “convenzionale”: “Sicuramente sanno che non siamo un uomo e una donna – scherza uno dei loro papà, Horace Bowie -. E il fatto che i loro genitori siano due uomini, senza dubbio, per loro non è un problema”. Lui e il marito Cristiano Pinausi, sposato in Canada dopo un tentativo fallito a San Francisco (il via libera al matrimonio omosessuale era stato stoppato quando la coppia aveva già prenotato il volo per andare a convolare a nozze nella città californiana), ieri sera allo Stragatto di Ravenna hanno raccontato la loro “fantastica normalità” (come la definisce spesso il giornalista Claudio Rossi Marcelli, anche lui omosessuale e papà): tra asilo nido, delirio dei “terrible two”, conciliazione famiglia-lavoro, uscite serali impossibili e compagnia bella.

Ci sono voluti tre anni, per la coppia, per riuscire a portarsi a casa i due gemelli, nati prematuri da una madre con gravi problemi. Tre anni dall’inizio del corso che “abilita” all’adozione al momento in cui, dall’ospedale, è arrivata la fatidica e inaspettata telefonata che annunciava la possibilità di diventare papà di quei due bimbi così piccoli, uno nato di nove etti e l’altro di un chilo e duecento: “Non avevamo nemmeno le carrozzine, tutto è successo dalla sera alla mattina. Per fortuna una nostra amica si è occupata di racimolare in fretta e furia tutto quello che ci serviva”.

I due papà, in realtà, una esperienza da genitori l’avevano già fatta crescendo per sette anni i figli (anche loro gemelli) della sorella di Horace, presi in “affido” per problemi familiari: “Sono stati con noi dai tredici a vent’anni. Quando mi chiedono se sono preoccupato per la futura adolescenza dei miei figli dico sempre che io, quel periodo, l’ho già passato. Sono prontissimo a ripetere l’esperienza”.

Qui in Italia, dove tornano spesso per le vacanze e per visitare i parenti (Cristiano è di Padova), gli sguardi non mancano: “C’è tanta curiosità, forse nemmeno tutti capiscono che i bambini sono i figli miei e di Horace. Ma se devo dire la verità, di negatività non ne percepiamo“. Né tantomeno la respirano a Miami, dove vivono: “Non abbiamo amici omosessuali con figli ma quando si va al parco con i bambini, di famiglie omogenitoriali se ne vedono eccome. Lì è tutto più normale”. La parola “normale”, in effetti, è la chiave di tutto: “Facciamo la vita che fanno tutti. Io sono direttore commerciale di un’azienda italiana che ha una filiale anche in Texas, Horace è una figura a metà tra il legale e l’assistente sociale. Lavoriamo entrambi da casa. I bambini sono stati con noi per i primi due anni: una gestione non semplice. Poi abbiamo deciso di mandarli al nido”. E quando gli si chiede come si sono ritagliati i rispettivi ruoli familiari, Cristiano risponde così: “Io mi occupo più delle regole, Horace del gioco e della parte affettiva. Ma è solo il modo che ci siamo dati noi, tra i tanti che esistono al mondo”.

Il confronto tra Italia e Stati Uniti non ha retto soprattutto quando Cristiano, in uno dei suoi tanti viaggi di ritorno, “per non saper né leggere né scrivere” si è rivolto al consolato per chiedere la cittadinanza italiana per Luca e Matthew: “Niente da fare. Noi per la legge del mio Paese non esistiamo. Ci sono rimasto malissimo”. Ma se vivesse qui, nessun dubbio: “Non avrei esitato ad andare dritto per la mia strada. Per diventare comunque papà”.

In questo articolo ci sono 0 commenti

Commenta

g