“Secondo me la donna e l’uomo, sono destinati a rimanere assolutamente differenti. E contrariamente a molti io credo che sia necessario mantenerle se non addirittura esaltarle queste differenze. Perché è proprio da questo scontro incontro, tra un uomo e una donna, che si muove l’universo intero. All’universo non gliene importa niente dei popoli e delle nazioni, l’universo sa soltanto che senza due corpi differenti, e due pensieri differenti, non c’è futuro”.
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza alle donne mi sono tornate in mente le parole di una canzone controcorrente scritta da Giorgio Gaber quasi vent’anni fa. Nessun buonismo, nessuna rima da baci perugina, nessuna ipocrita concessione alle mode di maniera. Quello di Gaber è solo buon senso: graffiante, anarchico, di sinistra. E permeato da un sano femminismo che fa l’elogio della differenza disdegnando l’omogeneizzato insapore di una parità di genere sostanzialmente estranea alla natura umana. Parole quelle di Gaber che ci devono far riflettere. Non basta una volta all’anno ripetere che la violenza contro le donne è un dramma e uno scandalo. Così come ogni estate si invitano i proprietari di cani a non abbandonarli. Sono tentativi certo generosi ma inutili. Per vincere, meglio per contenere, la piaga della violenza contro l’altra metà del cielo occorre sollevare una volta per tutte la foglia di fico che fa comodo a tanta cultura del nostro tempo. Ci si strappa i capelli, e giustamente, di fronte ai tanti, troppi episodi della cronaca. Ma poi nessuno, o quasi, prende le distanze dalla mercificazione del corpo femminile. Nelle copertine patinate ad uso dei colletti bianchi. Negli annunci di compravendita pubblicati da molti quotidiani. Negli spot pubblicitari. Che finiscono per dare alla donna, nel silenzio colpevole di tutti, il ruolo di un oggetto. Che quando si perdono le staffe, o si hanno i raptus, o irrompe la follia della cattiveria ha meno valore di un vaso ming gettato, nelle barzellette, ai piedi di una suocera bisbetica. Di fronte a questo brodo di cultura in cui si innesta il virus della violenza non basta lanciare un grido di dolore. Occorre affrontare il problema alla radice. Che è essenzialmente educativa. Non si cura la violenza con l’ideologia, anche quando è buona come certo colesterolo. Si deve ripartire in famiglia, nelle scuole, nelle associazioni da un fatto: uomo e donna non sono generi ma persone, entrambe “io” in azione. Ancora Gaber cantava: “Se sapessi parlare di Maria, se sapessi davvero capire la sua esistenza avrei capito esattamente la realtà”. Ovvero l’identità di una persona e non la sua strumentalizzazione. Quando gli uomini, e le donne, impareranno a parlare di Maria, forse il triste bilancio della prevaricazione maschile potrà contare meno morti e feriti.
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