A parte il gelo, il troppo buio in inverno, la troppa luce d’estate e gli amici che sono lontani, Delia Brera non tornerebbe indietro. La vita non è semplice nemmeno a Nøtterøy, in Norvegia, dove due anni fa si è trasferita col marito (norvegese) e i due figli Caroline e Jesper, che oggi hanno sette e quattro anni. Ma, a differenza che in Italia (Delia è di Bagnacavallo e per nove anni ha vissuto a Ravenna), lassù conciliare si può. Del resto è stata proprio l’impossibilità di tenere insieme la vita lavorativa con quella familiare a far propendere per un trasferimento non certo semplice.
Delia, che cosa è successo alla seconda gravidanza?
“Ho lavorato fino all’ottavo mese ma quando Jesper ne avevo solo uno, il mio contratto è scaduto. Il progetto nel quale ero impiegata come document controller era in fase conclusiva. Risultato: non sono più stata richiamata. Con una laurea in Scienze politiche e due bambini piccoli, mi sono ritrovata a casa. In realtà, già prima che Jesper nascesse avevamo deciso di trasferirci in Norvegia. Ci pesava molto il fatto che fossero i miei genitori a doversi occupare di Caroline dopo le quattro e mezza, visto che noi eravamo ancora al lavoro, e tutte le volte che si ammalava”.
Ricominciare a molti chilometri più a nord: qual è stato l’aspetto più difficile?
“Io e mio marito dovevamo entrambi trovare lavoro. E c’era da organizzare tutta la logistica dello spostamento. Non volevamo partire allo sbaraglio. Alla fine, Andreas ha deciso di continuare a fare da consulente per l’azienda per la quale lavorava in Italia, salvo poi aprirne una propria in Norvegia, quando siamo arrivati. Io, invece, ho trovato un posto tre mesi prima del trasloco”.
Davvero, come si sente dire, lavoro e famiglia possono andare di pari passo?
“Assolutamente sì. Il mio lavoro prevede 37 ore e mezza alla settimana. A parte dalle nove alle 15, fascia nella quale dobbiamo assicurare la presenza in ufficio, per il resto possiamo entrare e uscire quando vogliamo. Una formula flessibile che a me, per esempio, consente di riuscire ad andare a prendere i bambini dall’asilo e da scuola. E a volte anche a fare la spesa. Quando si ammalano, siamo retribuiti per dodici giorni all’anno. Ma ci si riesce tranquillamente a mettere d’accordo con il proprio superiore per lavorare da casa se non stanno troppo male”.
Quando siete arrivati in Norvegia l’epoca dei congedi parentali era già passata per voi. Se vi foste trasferiti prima, di che cosa avreste usufruito?
“Qui è previsto un congedo di nove mesi per la mamma e di tre per il papà. Tutti i padri lo prendono, nei nidi non si vedono lattanti perché il primo anno di vita del bambino, bene o male, è coperto. Tra padre e madre, 49 settimane di congedo sono pagate al cento percento. Se si sceglie di prendersene 59, si è pagati all’ottanta percento”.
Qualche difficoltà di ambientamento c’è stata?
“Sì, i primi due mesi per Caroline sono stati duri. Per quanto capisse il norvegese, parlarlo non è stato automatico. Alla materna, all’inizio, non parlava con nessuno. Jesper, invece, non si è accorto di nulla: quando rivede le sue foto nella casa di Ravenna, pensa di essere al centro giochi”.
Nessun pentimento, davvero?
“Nessuno. A nostro avviso, se sei single o coppia senza figli vivi definitivamente meglio in Italia: l’espressione ‘la bella vita’ per cui siamo conosciuti all’estero vorrà pur dire qualche cosa. Se invece hai figli, non c’è paragone: non solo per noi genitori ma anche per i bambini, la qualità della vita è molto meglio quassù”.
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