“Quello che ha la mamma col velo?”: storie di integrazione (e zuppa inglese)

velo, islam, donne musulmane“Ma chi, quello con la mamma col velo?”
“Ma chi, il figlio di quello lì? Ma ce l’ha un lavoro?”.

Ebbene sì. Mia figlia va a casa di Nour. Che si legge Nur, alla francese. Non N-O-U-R. Mica è un dettaglio: se mi chiamassero Salvia o Silva, mi arrabbierei. Il nome è importante: per dare un senso alla parola “integrazione”, il primo passo è chiamare le persone con il loro nome.

Sì, quella con il velo. Sì, quello che un lavoro non ce l’ha. L’ha perso, come migliaia di italiani del resto. Faceva il muratore ma l’edilizia, si sa, non ce la fa. L’estate scorsa, però, di giorno si arrabattava come stagionale e di notte aveva un posto da guardiano. Venti ore, più o meno, in tutto. Tornava a casa solo per la doccia. E poi via di nuovo al lavoro. Perché, ogni mese, 500 euro d’affitto sono un salasso.

A casa di Nour, una volta portata la pargola, mi hanno steso il tappeto rosso. Tè marocchino, biscotti fatti in casa e poi sì, la zuppa inglese. Divina. Perché la mamma di Nour, per la cronaca, lavora come aiuto cuoca in un ristorante romagnolo in centro a Ravenna. Di quelli dove il menù è piadina-scquaquerone-passatelli-ciccioli. E dove la zuppa inglese è sublime. “La più buona mai mangiata in vita mia. Ci sono stata qualche mese fa”, le ho detto. E lei ha attaccato a ridere: “Sapessi, la preparo io. Che sono marocchina”. E me ne ha dato un piatto da portarmi a casa. Ha aggiunto l’alchermes alla fine, davanti ai miei occhi: “Io non l’avevo messo. Sai, l’alcol. Ma per te, ecco qua”.

Poi sono andata via. Ho lasciato la pargola a giocare. È rimasta anche a cena.
“Che cos’hai mangiato di buono?”
“I cappelletti”.

La sera, l’è andata a riprendere il papà. È tornata a casa salva, sì. Anche se la mamma di Nour porta il velo. Anche se, suo padre, un lavoro non ce l’ha.

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