“Mia figlia era terrorizzata e piangeva in continuazione. Si è spaventata tanto da soffrire di attacchi di panico continui”. “Ho lasciato il Kosovo nel 1999 con i miei cinque figli e mio marito. Siamo scappati in Montenegro e ci siamo sistemati in un campo profughi, dove siamo rimasti fino al 2002”. “Quando la pancia ha iniziato a crescere mi hanno concesso un congedo temporaneo dall’esercito, e così sono potuta tornare ad Asmara, dove ho partorito la mia prima figlia”. Sono scampoli di racconti. Pezzi di disavventure umane – così crude, così vere – raccolti nel libro “Tutta la vita in un foglio. Memorie di richiedenti asilo” pubblicato dalla cooperativa Lai-momo. Sandra Federici è una delle curatrici del volume che da Bologna, dovrebbe essere promosso un po’ in tutta Italia con l’intento di spiegare che dietro quei volti che a volte spaventano, altre fanno pena, altre ancora suscitano indifferenza, c’è una storia, spesso al limite della sopravvivenza. E ci sono anche tante donne, tante mamme, che hanno narrato le proprie vicissitudini fatte, spesso, di violenze, soprusi, fughe, povertà.
Sandra, che cos’hanno in comune le memorie dei richiedenti asilo che avete raccolto?
“Innanzitutto è difficile trovare racconti ordinati, cosa che un bambino occidentale di prima elementare è perfettamente in grado di fare. Spesso c’è una trama simile, questo sì: la descrizione del villaggio e della famiglia d’origine, un episodio di violenza cruciale che spinge alla fuga, un viaggio attraverso vari Paesi dell’Africa o dell’Asia, il dramma della traversata per mare, il salvataggio. L’immagine della grane nave compare quasi sempre”.
Nel libro compaiono moltissime madri: assomigliano a noi “occidentali”?
“Per alcuni tratti emergono situazioni che a noi potrebbero sembrare strane, se non assurde. Ci sono madri che lasciano i figli dai parenti e partono per destinazioni nelle quali sperano di trovare i soldi da mandare a casa. L’idea di non vedere più il proprio figlio per noi sarebbe straziante. Per loro è diverso: è più importante la garanzia che qualcuno provveda economicamente”.
Ci sono anche alcune gravidanze, in quelle traversate: che senso assumono?
“Tragico quando frutto di stupri, frequentissimi durante i percorsi che alcune donne fanno per trovare un futuro migliore. Migliore nelle loro aspettative, certo: c’è una forte sopravvalutazione, da parte di chi scappa, di quello che si troverà. Anche se l’Italia, soprattutto per eritrei, sudanesi e siriani, non è certo la meta finale: sanno che starebbero meglio in Nord Europa. Ecco perché in Italia cercano di non farsi identificare, ripartendo prima che vengano prese loro le impronte digitali”.
La famiglia, in tutto questo, ha un valore positivo o no?
“Per molti giovani che fuggono la famiglia è come una gabbia, dove persistono gerarchie forti e rapporti di dipendenza. La famiglia non promuove il giovane, non lo spinge a cambiare la propria vita in meglio. Per molti il destino equivale a badare quattro capre per tutta la vita: per chi ha visto almeno una volta la tv, per chi ha avuto accesso a Internet, tutto questo è inaccettabile. E la sete di libertà spinge a rischiare”.
Le mamme che restano, invece, che ruolo hanno?
“Sono spesse destinatarie di grandi sentimenti di nostalgia. I sorrisi, la tenerezza, la dolcezza della madre sono evocati dai giovani che sono scappati a più riprese. La figura femminile, alla fine, si salva”.
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