“Papà ha un animaletto dentro”: Jack Sintini e la seconda possibilità dopo il cancro

Jack Sintini
Jack Sintini con la moglie Alessia e la loro figlia Carolina

Passare da 90 a 69 chili, dai campi di pallavolo agli ospedali, dall’essere un papà e un marito forte e sano ad uno malato. Giacomo Sintini, detto Jack, campione di pallavolo nato a Lugo, è certo che quella che gli è toccata è una “seconda opportunità”. Perché per guarire dal linfoma che lo ha colpito nel 2011, a soli 32 anni, ci vuole fortuna. Ma servono altre due caratteristiche: “Forza e coraggio”, dal titolo del libro che ha pubblicato con Mondadori e che questa sera alle 20,30 presenterà alla Sala D’Attorre (via Ponte Marino) a Ravenna (introduce l’assessore allo Sport del Comune Guido Guerrieri, coordina la giornalista Sofia Ferranti). In giro per la Romagna altre presentazioni sono in programma domani alle 21 al Salone Estense della Rocca di Lugo e sabato alle 17 al Circolo Arci Casablanca di Villanova di Bagnacavallo.
Giacomo, dalla malattia alla scrittura: che cosa ti ha spinto a mettere nero su bianco il tuo doloroso percorso?
“La casa editrice mi ha contattato direttamente per chiedermelo. E mi è parsa da subito una grande opportunità per amplificare quello che già stavo facendo dalla fine della malattia e in particolare da quando avevo ricominciato ad allenarmi: raccontare, testimoniare, condividere. Tutte azioni che servono a liberarsi, a ragionare, a vedere il cancro da un altro punto di vista, a dare un senso a ciò che si è subito. Quante volte, durante i ricoveri, avrei desiderato che entrasse una persona a dirmi che dal cancro se ne esce a testa alta”.
A trentadue anni un tumore non si mette in conto: che trauma è stato?
“Enorme. Mia figlia, Carolina, aveva solo tre anni. Mia moglie, Alessia, 28. Avevo dolori alla schiena ma l’unica mia paura era quella di dover smettere di giocare per un po’. Quando mi è stato diagnosticato un tumore ai linfonodi, il primo pensiero è stato la morte. Ho iniziato a pensare a quello che mi sarei perso di lì in avanti”.
A vostra figlia tu e tua moglie lo avete spiegato?
“Sì, l’abbiamo messa al corrente quasi subito, raccontandole che dentro il corpo di papà c’era un animaletto e che per ucciderlo avrei dovuto prendere dei veleni che mi avrebbero fatto stare molto male. Un cancro non si nasconde: ero sempre a letto, pallido e magro, senza capelli, vomitavo e vivevo con la mascherina, per non parlare dei mesi trascorsi in ospedale”.
E tua moglie, quanto è stata forte?
“Una furia, mai arrendevole. Prendeva appuntamenti con i medici, pianificava visite, rispondeva ai messaggi e alle telefonate. Non mi ha mai fatto sentire in imbarazzo, non mi ha mai vissuto come un peso. C’erano momenti in cui non riuscivo a provvedere a me stesso, nemmeno ad andare in bagno. Lei mi ha sempre accudito”.
Com’è il ritorno ad una vita normale, come coppia e famiglia?
“Un passaggio per niente facile. Una volta guarito, io avevo voglia di fare, fare e fare. Lei, stanca e stressata, aveva bisogno di rallentare. Uscire dalla malattia è come tornare dalla guerra: ogni componente della famiglia ha subito in maniera personale una violenza e ha preso la sua strada. Non è immediato ricompattarsi: io pensavo che lei mi intralciasse, lei che io non l’aspettassi. Ma alla fine ha prevalso l’amore: ora siamo molto più forti di prima, consapevoli che uno può contare sull’altra. Il lato negativo è che siamo più disillusi rispetto alla vita”.
La lontananza dai campi quanto è durata?
“Dal 4 aprile 2011 al 30 settembre 2012. Un periodo nel quale ho subito sette cicli di chemioterapia e il trapianto di midollo osseo”.
C’erano lo stesso tempo, voglia e modo di pensare al volley?
“Sì, mi mancavano soprattutto lo spogliatoio, le trasferte, le cavolate che si dicono tra compagni, la tensione prima delle partite, le serate in albergo. Per fortuna ex colleghi, allenatori e dirigenti non mi hanno mai fatto sentire solo: ho davvero avvertito molto affetto”.
Che cosa vuoi restituire a chi legge il tuo libro?
“Voglio che sia un incitamento alla vita, un biglietto di auguri per chi sta male e perde le speranze. Oggi che sono in perfetta forma e non assumo medicinali, il mio impegno è fare qualcosa per chi è malato. Ho costituito l’associazione Giacomo Sintini, che in due anni ha raccolto 150mila euro, di cui 50mila devoluti alla ricerca. Con il resto dei soldi abbiamo finanziato l’acquisto di macchinari per l’oncologia pediatrica di Trento, sostenuto l’assistenza domiciliare dei malati oncologici di Ravenna e comprato regali, per due anni a Natale, per i bimbi dell’oncologia dell’ospedale di Perugia”.
Quest’anno hai giocato a Trento: che ne sarà di te a settembre?
“Vediamo, devo ancora valutare. Per ora mi occupo dell’associazione e del libro, che mi sta consentendo di fare una bellissima esperienza. A Perugia, che è anche la città di mia moglie, sono venute ad ascoltarmi seicento persone”.
Carolina ti chiede ancora della malattia?
“Ogni tanto sì. Mi chiede se mi ricordo del periodo in cui andavo nella casetta del dottore, come lei chiama l’ospedale. E poi recita le preghierine, chiedendo che il suo papà non si ammali più”.

 

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