La famiglia che è il tuo unico punto di riferimento è la stessa da cui dovresti scappare. Dietro una violenza ci sono dinamiche incrociate, ingarbugliate, esplosive per la testa di un bambino. Per facilitare il racconto dei minori, al Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e alla Famiglia di Roma usano molto il disegno e la scrittura, anche a quattro mani: l’operatore scrive una frase e il minore risponde, continua, completa. Lo ha raccontato la psicologa Ester Di Rienzo venerdì scorso a Ravenna. La psicoterapeuta ha fatto l’esempio di un bimbo che subiva sì violenze da parte dalla madre ma allo stesso tempo aveva chiaro benissimo nella testa il perché lei si allontanava da lui, accendendo la televisione per non sentire le sue urla: anche lei – il bimbo lo sapeva – da piccola era stata maltrattata.
Dato degli ultimi tempi, al CAMBF crescono i bambini vittime di maltrattamenti in situazioni di separazione conflittuale dei genitori. Ester Di Rienzo ha visto infatti aumentare negli ultimi anni gli invii di minori implicati nella rottura del rapporto tra mamma e papà. Ma non è sempre così. “Spesso il maltrattamento dura da anni, non da mesi – ha riferito – e le radici affondano talmente nella storia generazionale della famiglia, da richiedere per il minore lo stato di protezione. Il nostro obiettivo, anche se difficile, è prenderci cura non solo del bambino ma anche dei suoi genitori, recuperando se possibile le relazioni disfunzionali”.
Complesso, poi, è capire davvero cosa sta succedendo o è successo a quel bimbo che dà segnali comportamentali anomali. Se poi ci si aggiunge anche l’alto impatto emotivo che le storie di violenza hanno sugli operatori (sociali, giudiziari…), cercare di comprendere si fa ancora più duro: “Le reazioni emotive di chi entra in contatto con la violenza subita da un minore sono simili a quelle di chi la subisce. Noi parliamo di traumatizzazione secondaria: pochi giorni fa una giovane Pm, davanti ad una ragazzina che ci stava raccontando un abuso durante una consulenza, le ha chiesto di fermarsi. Ma ho insistito che dessimo la possibilità alla bambina di andare avanti. Gli operatori mettono in alto a volte meccanismi come la negazione, la minimizzazione, il distanziamento difensivo”.
E occorre anche tempo: “Il minore deve avere avuto modo di elaborare ciò che ha vissuto, altrimenti il suo racconto risulterà falsato e perciò non attendibile”. Ecco perché bisogna avvicinarsi a lui in punta di piedi. Un altro esempio forte portato dalla Di Rienzo è stato quello di una ragazzina che era stata allontanata dalla famiglia d’origine, messa in casa famiglia e che quando usciva da scuola (dove andava a prenderla un educatore) attivava comportamenti iperattivi ed aggressivi per il fatto che tra la folla dei genitori le pareva a volte di scorgere un indumento simile a quello del suo maltrattante: “Aveva ragione ad avere paura. Durante una vacanza con la casa famiglia, alla madre fu dato il permesso di andare a trovarla. Sapete con chi si presentò? Con il suo abusante”.
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta