Donna, mamma, sieropositiva: la vita normale di Rosaria Iardino, pazza per Anita

Rosaria Iardino

“Anita è una pacioccona. Ha sette mesi e io di fronte a lei mi sciolgo: mi chiedo come farò a darle delle regole, per ora sono tutta coccole e vizi”. Rosaria Iardino è una donna che non passa inosservata, e non solo per il bacio che nel 1991 stampò sulle labbra dell’immunologo Ferdinando Aiuti per dimostrare che no, il virus dell’Hiv non si trasmette così. Rosaria è sieropositiva da trent’anni: ne aveva diciassette quando lo scoprì. Ma la sua vita è stata tutto sommato di qualità: oltre a fare progetti personali e a realizzarli, Rosaria è impegnata come attivista dei diritti delle persone sieropositive (ha fondato Nps Italia onlus, tra le altre cose) e della salute femminile in generale (con Donne in Rete), impegni che porta avanti anche come consigliere comunale di Milano, eletta nelle fila del Pd. Ha portato la sua testimonianza a Ravenna dieci giorni fa, durante un convegno organizzato dall’Ausl e dedicato proprio al tema donne e Hiv.
Rosaria, ora che è anche mamma non potrebbe rappresentare al meglio ciò che una donna sieropositiva può ottenere dalla vita. Come sta andando la nuova avventura?
“Ho lasciato che a diventare mamma biologica tramite la procreazione medicalmente assistita fosse la mia compagna, io ero troppo vecchiotta. Lei è anche mamma di Giulia, una ragazzina di dodici anni che vive con noi. La parte della mamma, insomma, l’avevo già fatta. Con Anita sono molto premurosa, con Giulia più conservatrice, soprattutto ora che sta attraversando l’adolescenza, con i carichi ormonali e tutto quello che ne consegue”.
Avrebbe mai pensato di arrivare fino qui, dopo la diagnosi di trent’anni fa?
“Fui scoperta positiva agli anticorpi del virus Hiv, il che non significa che si è destinati a morire di Aids o comunque a sviluppare delle patologie. Io ho avuto la fortuna di sopravvivere fino al punto in cui sono stati individuati i farmaci anti-Hiv: è stata la famosa svolta del 1996. Da allora assumo ogni giorno medicinali che mi consentono di tenere sotto controllo la situazione”.
La paura della morte l’ha scongiurata?
“Credo che sia più alto il rischio che io muoia di cancro ai polmoni, visto che fumo un pacchetto di sigarette al giorno, piuttosto che per l’Hiv”.
Per tenere a bada il virus, però, ha la condanna quotidiana di dipendere dai medicinali. Come si vive?
“I primi farmaci ti salvavano la vita e basta. Oggi la qualità è certo superiore. Io assumo quattro pasticche al giorno. Avere una relazione affettiva aiuta, la mia compagna è diventata il mio pro-memoria. Quando mi capita di saltare una pillola, è come se se lo sentisse. Anche Giulia dà una mano: la mattina facciamo colazione insieme e verifica che io abbia preso la medicina”.
Lei è un personaggio pubblico. Che cosa sono costrette a subire le donne sieropositive che vivono più in ombra?
“La prima difficoltà è legata alla maternità. Mentre in passato la donna sieropositiva veniva legata all’immagine di una tossicodipendente, quindi senza progetti di vita, oggi tutto è cambiato. Le donne sieropositive hanno età diverse, spesso sono eterosessuali e c’è il caso che vogliano un giorno diventare mamme. Quando vengono prese in carico, il loro sogno andrebbe preso in considerazione: i trattamenti farmacologici devono essere strategici, non ridurre per esempio la capacità ovarica, essere compatibili con una gravidanza. Queste donne andrebbero sottoposte a visite ginecologiche accurate. La donna con l’Hiv è una donna, non è un virus”.
Qual è il rischio che la mamma sieropositiva trasmetta al feto il virus?
“Meno dell’1% se è seguita adeguatamente. La placenta fa da barriera. Diverso il discorso per i rapporti sessuali, che devono essere sempre protetti. La strada per la genitorialità, omosessuale o eterosessuale che sia, passa per la fecondazione assistita. In Italia la legge 40 è stata modificata in modo da prevedere la gratuità dell’accesso alla Pma anche a chi è sieropositivo”.
La donna con l’Hiv non rischia l’isolamento, anche affettivo?
“Lo rischiava più in passato, quando alcuni farmaci causavano lipodistrofia, andando a modificare in maniera pesante il corpo: molte donne si sono ritrovate con gli arti molto sottili e il tronco adiposo. La nostra indicazione è che non si faccia più uso di quei medicinali a priori, a meno che non ci sia un pericolo di vita. Fare una scelta terapeutica che trasforma radicalmente e in peggio il corpo femminile significa condannare la donna alla depressione e alla morte della sua vita affettiva e sessuale”.
E sul fronte del lavoro?
“Questo è un problema che riguarda uomini e donne alla pari. Un datore di lavoro può chiedere ad una persona che sta per assumere o ad un dipendente il test dell’Hiv. Ma non può evitare di assumere o licenziare in base al risultato. Il che suona abbastanza paradossale. Noi abbiamo fatto sottoscrivere a diversi Ministeri una delibera che verrà inviata ai medici del lavoro: è un richiamo alla norma. La sieropositività non può essere un fattore discriminante, almeno per certe occupazioni: se fai la cassiera o il meccanico, il discorso non regge”.

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