«Quando le bambine di cui mi prendo cura, mi dicono che gli manca tanto la loro mamma, io le capisco. Loro sono i miei amori, ho tanto bisogno del loro affetto, ma anche io gliene do tanto. Con il tempo ho anche imparato ad amare, a fidarmi e ad affidarmi». S. è una ragazza di 25 anni che ha vissuto l’ultimo decennio della sua vita in una famiglia affidataria, la stessa per la quale ora lavora come educatrice, in Romagna: «Quando sono arrivata da M. e A., i miei genitori affidatari, ero già passata per altri affidi, ma nessuno mi aveva tenuto. Ogni volta, a un certo punto, dopo qualche mese, io cominciavo a comportarmi male. Credo che fosse il mio modo per metterli alla prova, per vedere se volevano veramente tenermi e ogni volta le mie aspettative venivano smentite: mi mandavano via verso una nuova famiglia».

S. proviene da una famiglia molto difficile: «Sono figlia di una donna che ha una dipendenza da alcol e di un padre tunisino che, quando ha scoperto che mia madre era incinta, l’ha picchiata, perché non mi voleva. Di lui so solo il nome, l’ho cercato una volta e ho scoperto che si è fatto un’altra famiglia. Ma pensandoci bene, non ci voglio avere niente a che fare, io non mi merito un padre così. Con mia madre, invece, ho vissuto fino ai 12 anni, anche se quando era troppo ubriaca e mi picchiava, andavo a dormire da mia sorella di parecchio più grande di me, ma anche lì le cose non andavano meglio. Suo marito è un violento ed entrambi mi maltrattavano, ognuno a suo modo. Lei mi diceva che ero grassa, stronza e altre cattiverie. Di suo marito meglio non parlarne».

La storia degli affidi per S. comincia quando aveva 11 anni: «All’epoca ero a casa di mia sorella, che mi disse di preparare la valigia, perché saremmo andati in vacanza in Puglia. Ma in realtà per me quell’estate non c’è stata nessuna vacanza. Quando vidi l’assistente sociale che era venuta a prendermi, mia sorella mi disse che dopo un mese, sarei tornata a casa. Ma non è accaduto, sono io che sono scappata». Successivamente S. fa avanti indietro tra casa della madre e della sorella: «La situazione si era fatta insostenibile. Mi bastava un attimo, anche solo ascoltare il passo di mia madre, per capire se avevo bevuto e che cosa mi sarebbe capitato. Quando mia sorella richiamò gli assistenti sociali, andai da M. e A».

Nel frattempo la paura dell’abbandono di S. è sempre più grande: «Alzavo dei muri altissimi, ero ferita e impaurita. Mi rendevo irraggiungibile. Avevo imparato a non dire nulla, a farmi andare tutto bene, ma dentro di me soffrivo tantissimo».

Ma con M. e A. le cose vanno diversamente: «Io non riuscivo ad abituarmi a loro, a questo modo di fare. Loro che mi trattavano bene, che mi chiamavano “tesoro” invece che “stronza”, che mi davano delle regole, che mi ascoltavano. La mia madre affidataria mi racconta che dopo 6 mesi che ero da loro, io continuavo a stare male. E allora l’assistente sociale volle parlarmi. Io gridai con quanto fiato avevo in gola: “Con quegli stronzi non ci rimango!”. Da allora cambiò qualcosa. Loro mi tennero nonostante tutto, e io iniziai a stare meglio. Dopo qualche anno arrivò un’altra bambina e poi un’altra ancora e adesso sono io a occuparmi di loro».

Dopo alcuni anni dall’inizio delle scuole superiori S. scopre la sua passione per i bambini: «Qualche anno fa M. e A. mi hanno chiesto se volevo lavorare per loro. Io ho fatto un percorso da una psicologa, perché avevo paura di non riuscire a elaborare tutte le emozioni negative che avevo vissuto e di ritrovarle, oppure di riversarle sui bambini. E sta andando tutto benissimo».

Oggi S. è una giovane adulta, autonoma e serena: «Tutto ciò che mi è accaduto è la mia storia e mi è servito a diventare quella che sono oggi. Mi sento felice, circondata da persone che mi amano. I miei genitori affidatari mi hanno salvata. Ho comprato una casetta in campagna vicino alla loro. Mi piace averli accanto, vedere le amiche, ma anche stare da sola. Adoro dipingere, cucinare e ascoltare la musica, tutte passioni che cerco di trasmettere alle mie bambine. Forse un giorno avrò un figlio mio, forse no. Non lo so, per ora sto bene così». Inoltre, A. è riuscita a ricucire il rapporto con sua madre: «Sono riuscita a perdonarla, accettando i suoi limiti e le sue fragilità. Spesso è lei che ha bisogno di me. So che adesso si sta disintossicando, ce la sta mettendo tutta. Lo spero per lei».