Ancora è presto per saperne di più sulle donne che hanno contratto il Covid in gravidanza o che erano infette durante il parto o il puerperio. In attesa degli esiti definitivi dello studio promosso dal Sistema italiano di sorveglianza ostetrica (ItoSS) dell’’Istituto superiore di sanità, che ha visto anche l’adesione della Regione Emilia-Romagna, però, qualcosa in materia si può dire.
Enrica Perrone del Servizio di assistenza territoriale della Regione spiega infatti come in nessun caso di donne che hanno partorito tra quelli rilevati (59 su 667 a livello nazionale), il virus sia stato trasmesso ai neonati: «Se si considera l’Italia e non solo l’Emilia-Romagna, 2,8% dei nati sono risultati positivi al virus dopo la nascita. I dati dello studio, che si riferiscono al periodo dal 25 febbraio, quando la ricerca è iniziata, alla fine di settembre sono ancora preliminari e non ci si può ancora sbilanciare». Per quanto riguarda il tasso di incidenza dell’infezione nelle 667 donne che hanno partorito, è pari al 2,9 casi per mille parti a livello nazionale, con un maggiore tasso nelle regioni del Nord rispetto a quelle del Sud: «Sono dati che ricalcano la diffusione dell’epidemia nel nostro paese».
Nello studio sono stati coinvolti, in Emilia-Romagna, i 18 punti nascita che erano attivi al momento dell’avvio: «Sono stati inclusi sia gli hub che gli spoke, nonostante le indicazioni di centralizzare i casi di donne con il Covid nei punti nascita più grandi. Una scelta che ci ha ripagati. Alcune donne positive che non potevano essere trasferite negli hub, infatti, sono rimaste a partorire negli spoke, non senza la garanzia che venissero rispettati gli standard di sicurezza. Non solo: nei mesi successivi abbiamo notato, con la diffusione dello screening al momento del ricovero, che diverse donne, anche se asintomatiche, risultavano positive. E poter contare sugli spoke è stato d’aiuto».
Quello che, intanto, la Regione ha provato a fare, è capire l’impatto del Covid sul percorso nascita, almeno nei primi mesi della fase uno: «Abbiamo rilevato diversi aspetti, a partire dal fatto che da marzo a giugno, la frequenza delle donne ai corsi di preparazione alla nascita si è ridotta dal 35 al 18%. Un altro elemento che ci ha preoccupato è la percentuale di donne che non hanno avuto accanto una persona di fiducia durante il travaglio: era il 6% nel marzo 2019, è stata il 25% nel marzo 2020. Criticità, quest’ultima, che poi è gradualmente rientrata, per fortuna: avere con sé il compagno, il marito o comunque una persona di riferimento, sappiamo che aumenta le possibilità di un parto per via vaginale e, più in generale, rende positiva l’esperienza della nascita». Sempre nei mesi del lockdown, sono stati osservati altri trend: «Abbiamo visto che, rispetto all’anno precedente, è diminuito il numero di nascite pretermine, sia tra la 28esima e la 31esima settimana, che tra la 32esima e la 36esima. Altri Paesi, come la Danimarca, lo avevano registrato, ipotizzando come causa il minor stress fisico al quale le donne, durante le restrizioni, sono state sottoposte. Noi siamo più cauti nel formulare una ipotesi, perché è qualche anno che la prematurità in regione è in calo». In Emilia-Romagna, da marzo a giugno, sono anche calati i tagli cesarei: «Siamo soddisfatti di questo, perché temevamo che il Covid potesse portare a un aumento. In altre realtà infatti i tagli cesarei sono aumentati, probabilmente perché i professionisti percepivano, erroneamente, più sicuro un parto programmato in una sala operatoria che un parto per via vaginale». Quanto ai nati morti, non c’è stato un cambiamento statisticamente significativo, come invece ha rilevato il Lazio.
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