Parla la dottoressa Eleonora Incerpi, psicoterapeuta nel gruppo Confcommercio di supporto a lavoratori e imprenditori: «La famiglia può fare tanto per formare una persona soddisfatta di se stessa e della propria carriera. Il fallimento? Una tappa che nella vita può capitare»
Un servizio di ascolto psicologico per imprenditori e lavoratori associati a Confcommercio: questo il progetto nato a Ravenna nelle scorse settimane all’interno dell’associazione di categoria. Una delle psicoterapeuta del gruppo d’ascolto è Eleonora Incerpi (nella foto). Insieme ad altre sei professioniste – il gruppo è interamente “rosa” – aiuta le persone a superare l’idea, sbagliata, che associa lo psicologo allo “strizzacervelli”. «Spesso questo preconcetto – spiega – impedisce alle persone che stanno attraversando un particolare momento di disagio o vivono una sensazione di fallimento, di chiedere aiuto. Si pensa, erroneamente, di essere in grado di cavarsela da sole, di riuscire a trovare la forza in autonomia. Seguire un percorso di psicoterapia permette di acquisire una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e soprattutto del bagaglio di esperienze che ci rendono le persone che siamo, in modo da riuscire a cambiare la nostra visione delle cose e così della realtà che ci circonda».
Dottoressa Incerpi, in una società in cui si è ormai estremamente competitivi ed in cui tutto si muove velocemente, come gestire una situazione di fallimento ed evitare di sentirsi “sbagliati”?
«Esistono varie tecniche psicologiche per lavorare su un’impostazione mentale che tende a rifiutare il concetto di fallimento. Partirei però dall’etimologia del termine stesso che di per sé ha un’accezione negativa. La parola fallimento deriva dal latino “fallere”, che vuol dire “ingannare”, “deludere”. Ma ingannare chi? Deludere chi? C’è sempre una componente relazionale in una situazione avvertita come fallimento. Ed è qui che sta il punto. È il modo in cui ho interiorizzato le prime cadute, i primi rimproveri ricevuti da piccolo, i primi momenti di autonomia personale che mi faranno sentire “sbagliato” o meno nell’affrontare le sfide che la vita mi pone davanti. Se fin da bambino ho vissuto esperienze, come direbbe John Bowbly, che mi hanno permesso di esplorare il mondo e tornare dal caregiver che mi consola e poi mi incita nuovamente a riprendere l’esplorazione allora, certamente, non avvertirò il sentimento di “sentirmi sbagliato”, ma sarò sicuro nell’affrontare le difficoltà che incontrerò nella società, più che mai in quella odierna. Se invece, fin da bambini, si è cresciuti in una condizione di iperprotezione, l’esplorazione del mondo potrebbe essere vissuta con incertezza o non essere completamente vissuta.»
La crisi economica ha reso più complicato, soprattutto tra i giovani, l’inserimento nel mondo del lavoro. Come gestire questa impasse anche di indipendenza economica, a volte fonte di forte stress?
«Oggi viviamo una vera e propria emergenza sociale: il lavoro precario, la mancanza di certezze economiche a lungo termine portano i giovani di oggi a vivere un’adolescenza sospesa. La difficoltà di riuscire a costruirsi una propria realtà può generare stati depressivi, disturbi psicosomatici, ritiro sociale in alcuni casi.»
Cosa consiglierebbe ad un giovane?
«Il suggerimento che do sempre ai miei pazienti è quello di investire su di sé: capire quali sono le proprie potenzialità e risorse e da quelle avviare il proprio percorso professionale. Tutti le abbiamo. Quindi investire nello studio, nella formazione e anche nella conoscenza dei propri talenti. Il passaggio successivo sarà domandarsi: “Cosa posso fare nella mia società?” Bisognerebbe partire sempre da ciò che sia, non da ciò che ci manca.»
Da una parte una forma mentis ancorata all’idea del “posto fisso”, dall’altra nuove tipologie di lavoro (startup, freelance, coworking) che cercano di affermarsi ma non trovano in Italia validi presupposti per svilupparsi: non crede ci sia un problema di “sistema” alla base?
«Sicuramente c’è un problema di base, che dipende dal sistema economico. Ma è una materia che non mi compete. Per me è importante lavorare sulla forma mentis per cercare di cambiarla. Non si può attendere il cambiamento sociale che risolva i miei problemi, sono io che devo muovermi per trovare il mio spazio. O i miei spazi. Questo è uno dei più grandi insegnamenti che ho ricevuto durante la scuola di specializzazione: investire su noi stessi. Noi siamo l’unica certezza.»
I genitori svolgono un ruolo fondamentale nella crescita di un figlio. In che modo bisognerebbe aiutarli ad inseguire i propri sogni, fuori da ogni stereotipo?
«Oggi si tende da genitori ad assumere un atteggiamento di iperprotezione nei confronti dei figli. L’iperprotezione (che consiste nel fare le cose al posto dell’altro) squalifica la personalità di un figlio. Si trasmette, involontariamente ovviamente, il messaggio: “Io ti proteggo perché tu non sei in grado”. In questo modo il figlio crescerà nella società con un carico di insicurezze, che potrebbero sfociare in ansie fino a bloccarlo emotivamente. Da qui l’incapacità di sentirsi adeguati, di riuscire ad affrontare le sfide o i fallimenti personali, lavorativi, affettivi ecc. È importante invece, da genitori, riuscire ad accogliere il proprio figlio quando si presenta una difficoltà, condividere le sue paure, curare insieme le ferite delle sue cadute, ma dopo lasciare la porta di nuovo aperta, per aiutarlo a trovare le sue risorse e così una collocazione nel mondo.»
I rapporti con i colleghi ed il carico di lavoro possono innescare stati d’ansia e di stress nel lavoratore: a Ravenna, dove esercita, ha riscontrato simili stati comuni a più persone?
«È stimato che in Italia la patologia più diffusa, soprattutto nelle aziende, sia lo stress da lavoro correlato, che porta ad una serie di sintomi quali ansia, insonnia, disturbi psicosomatici, difficoltà relazionali che iniziano quando la mole di lavoro è superiore alle risorse che il lavoratore ha a sua disposizione. Un’altra condizione molto diffusa è quella del burnout, crollo psicologico che si manifesta soprattutto tra gli operatori sanitari. Anche a Ravenna mi è capitato di avere in terapia persone con questa sindrome.»
Quali sono i sintomi di questa patologia?
«Uno stato di burnout è in sostanza il culmine di un processo stressogeno che si articola in tre fasi, secondo il modello di Cherniss 1980: disagio; emotività negativa; coping, ioè, quando il soggetto di fronte ad una situazione stressante evita il problema, distaccandosene emotivamente fino ad arrivare all’assenteismo. Infine c’è il mobbing. Il termine deriva dall’inglese to mob, ovvero perseguire, che è un’azione compiuta dagli animali quando devono allontanare dal branco un loro membro. A livello lavorativo può essere orizzontale, quando è messa in atto dai colleghi, oppure verticale, in questo caso dal datore di lavoro. Gli atteggiamenti di mobbing sono individuabili in quei sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico».
Passando alla figura della mamma imprenditrice, come dedicarsi alla famiglia senza rinunciare al lavoro, in una società che a volte sembra dire il contrario?
«Siamo in una società che vende modelli di illusione: la mamma perfetta, l’imprenditrice perfetta, la mamma già in forma, truccata e con la minigonna post parto, alla Chiara Ferragni. In realtà la verità è che ogni individuo ha una sua storia, ha delle risonanze emotive uniche, proprie, che devono essere rispettate. E bisogna partire da qui: che cosa sento e che cosa voglio dopo il parto? Sento il bisogno di rientrare subito a lavoro? Bene, in concomitanza con le esigenze del nascituro cercherò di organizzarmi. La scelta è esclusivamente della donna. È importante ricordare di non essere da sole in questa fase: ci sarà un padre, dei nonni o delle tate a cui fare affidamento. Infine, altra cosa fondamentale, è riuscire ad ascoltare e dare voce ai propri bisogni: una donna felice sarà anche, e sicuramente, una mamma felice».
Erika Digiacomo
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta