Ritirati sociali, 346 casi in Emilia-Romagna: “La scuola può e deve fare molto”

Sono stati 346, durante lo scorso anno scolastico, i casi di Hikikomori, o ritirati sociali, nelle scuole dell’Emilia-Romagna dalla primaria alla secondaria di secondo grado. Sono i dati che Alessandra Prati dell’Ufficio scolastico di Forlì-Cesena porterà il 16 febbraio a Forlimpopoli (Multisala Cineflash) durante il convegno “La mia vita in una stanza” che avevamo annunciato durante la toccante intervista alla mamma di un ragazzino che ha terminato il proprio calvario scolastico, di recente, abbandonando – pare definitivamente – aule, professori e compiti in classe. 

“Al monitoraggio dell’Ufficio scolastico regionale – spiega Prati – hanno risposto 687 scuole su 702, sia statali che paritarie. Sappiamo anche il picco del fenomeno si concentra tra i 14 e i 18 anni ma che non mancano i casi alle elementari. In Emilia-Romagna, in controtendenza rispetto a quello che la letteratura ci dice, abbiamo un po’ più di più ragazze colpite, rispetto ai ragazzi. La maggior parte delle volte si tratta di studenti o studentesse intelligenti, brillanti e con un buon rendimento ma che per una serie di motivi perdono la motivazione fino al rifiuto totale della scuola e all’isolamento”.

(Foto d’archivio)

Quel che è certo, secondo Prati, è che davanti a un fenomeno così complesso e allo stesso tempo poco conosciuto dagli insegnanti, la scuola può comunque fare molto anche nel momento in cui si palesano le prime manifestazioni del disagio: “Ci sono diversi segnali che un docente può captare prima di quel fattore precipitante che gli studi ci indicano, ovvero – in molti casi – un episodio di bullismo anche subdolo”. 

Va bene la sensibilizzazione, va altrettanto bene la formazione specifica. Ma secondo Prati esistono già strumenti da implementare: “Si può attuare una flessibilità delle modalità didattiche e valutative per mezzo della redazione di un Piano didattico personalizzato che preveda la deroga alle assenze, la possibilità di usufruire di lezioni via Skype o video-lezioni registrate, così come dell’istruzione domiciliare. Ma piccoli successi, ci riferiscono gli insegnanti, possono venire anche da semplici mosse, come quella di interrogare o assegnare le verifiche all’interno dell’edificio scolastico ma in ambienti protetti o in orari diversi da quelli canonici. Chiaramente, ci vuole la volontà del consiglio di classe di aiutare quel ragazzo e la collaborazione con la sua famiglia e con i professionisti coinvolti nel caso”.

Un’idea di inclusione che parta, quindi, dagli adulti: “Siamo abituati a pensare all’inclusione nei confronti dei soggetti considerati più fragili. Qui, spesso, siamo in presenza di ragazzi con un quoziente intellettivo alto o con esigenze particolari. Che presentano, a tutti gli effetti, bisogni educativi speciali. E davanti ai quali non bisogna né chiudere gli occhi, né agire impulsivamente”.

 

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