“Non l’ho mai pensato, di essere una cattiva madre. Ho pensato invece che i luoghi comuni che descrivono la buona madre fossero inadatti a me e che dovevo trovare il ‘mio’ modo di essere madre, quello che rendendo felice o quanto meno più serena me, avrebbe reso più felice anche mio figlio. Ho trovato il mio modo, lo aggiusto un po’ ogni giorno e prendo di continuo le misure”. Ci diceva queste parole, una ventina di giorni fa, la scrittrice Simona Vinci in relazione al suo ultimo libro “Parla, mia paura” (Einaudi).
Vincitrice del Premio Campiello 2016 e autrice di libri di grande successo come “Dei bambini non si sa niente” e “La prima verità”, Vinci arriva domani a Ravenna per la rassegna “Il Tempo Ritrovato”. Alle 18 dialogherà con Eraldo Baldini alla Biblioteca Classense.
Nella sua ultima fatica lettereria Simona Vinci si immerge nella propria paura e cerca un linguaggio per confessarla. L’ansia, il panico, la depressione spesso restano muti: chi li vive si sente separato dagli altri e incapace di chiedere aiuto. Ma è solo accettando di “rifugiarsi nel mondo” e di condividere la propria esperienza che si sopravvive. La stanza protetta dell’analista e quella del chirurgo estetico, che restituisce dignità a un corpo di cui si ha vergogna, l’inquietudine della maternità, la rabbia della giovinezza, fino allo strappo iniziale da cui forse tutto ha avuto origine. Scavando dentro se stessa, Simona Vinci ci dona uno specchio in cui rifletterci. Si affida alle parole perché “le parole non mi hanno mai tradita”. Perché nella letteratura, quando la letteratura ha una voce così nitida e intensa, tutti noi possiamo trovare salvezza. Simona Vinci ha vinto il Premio Campiello 2016 con “La prima verità”. È cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di restare da sola. Nel posto in cui vivevo allora arrivava il richiamo lacerante dei piccoli rapaci notturni nascosti tra i rami degli alberi. Di notte, l’inferno indossava la maschera peggiore. Di notte, quando nelle case intorno si spegnevano tutte le luci, tutte le voci, quando sulla strada il fruscio delle automobili e dei camion si assottigliava.
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta