Bologna, Kant, Jack Frusciante, gli 883 e l’amore perduto a 20 anni

Alice Lucchi

Ci sono state notti in cui lo aspettavo sveglia nella mia stanza, in attesa di una chiamata, un messaggio, o di un sasso contro la mia finestra. A volte faceva anche così. Compariva alle ore più assurde, senza avvertire, magari appena uscito dalla discoteca, ubriaco marcio, tanto da reggersi a mala pena in piedi. Io riconoscevo il rumore della Vespa. E il cuore iniziava a battermi all’impazzata. Avevo vent’anni, facevo l’università, passavo i pomeriggi in biblioteca a studiare Hegel e Kant. Alla mattina andavo a lezione, non ne saltavo una, lo studio era la mia ragione di esistere. Lo studio mi proteggeva da tutto quello che vedevo fare ai miei coetanei. “Non posso, devo studiare” era la risposta che mi salvava dagli inviti alle feste, in discoteca, dalle cene nelle osterie di via Zamboni. Detestavo questo mondo in cui anche se non ci si divertiva bisognava far finta di essere sempre allegri, ballare, baciare, arrivare a casa al mattino. Detestavo l’odore acre del disinfettante che usavano di notte gli spazzini per pulire i portici; un odore misto a quello dei cani dei punkabbestia che dormivano all’aperto. Detestavo incontrare ogni due metri chi ti sussurrava: “Bici? Fumo?”. “Ho lezione presto, mi dispiace”. Me la cavavo così. Pericolo scampato. Finche arrivò lui, compagno di corso a letteratura italiana.

“Hai gli appunti della lezione di  ieri?”

“Sì”.

“Me li presti che ho l’appello prossima settimana e sono indietro?”.

“Ok”.

“Passa stasera dal locale in cui suono, beh suonare è una parola grossa… metto su dischi, mi ci pago l’affitto qua a Bologna”.

“Grazie ma devo…”.

“Stasera passa, dai che ti ridò il quaderno”.

Aveva i capelli ricci. Un maglione di lana rovinato e jeans strappati. Un modo strano di camminare, tra il goffo e l’esuberante. Quella sera mi ritrovai lì. Finimmo sui colli a bere due Moretti da 66 e a fumare mezzo pacchetto di Pall Mall. Parlammo tre ore di tutto, di noi, dei nostri sogni, della vita, dei Nirvana, dei film di Tarantino.

Quando mi salutò mi disse: “Non sei una ragazza ma un intero disco di Battisti”.

Riconobbi la frase: era di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”.

Con lui non era semplice sesso. Era la cosa più fantastica che avessi mai provato. Più di tre giri consecutivi sul tagadà. Era adrenalina pura. Furono tre mesi di sesso, amore, amicizia, scoperta, avventura. Lui non mi disse mai “ti amo”. Non mi chiese mai di fidanzarmi. Per giorni interi non si faceva sentire. Scompariva. Poi si rifaceva vivo all’improvviso magari nel cuore della notte. Ci chiudevamo in stanza per giorni interi, con le tapparelle abbassate non sapevamo nemmeno se fosse giorno o notte, che importanza aveva? Il mondo fuori cessava di esistere. Facevamo l’amore. Ridevamo. Guardavamo film, mangiavamo pizza e merendine, fumavamo qualche canna, lui mi prendeva in giro per il mio pigiama rosa con gli orsetti, mi prendeva in giro perché piangevo nella scena finale di “Come eravamo”, io lo prendevo in giro perché aveva le mutande di Dolce e Gabbana, lo prendevo in giro perché rideva per i film più stupidi e perché mangiava solo il ripieno degli Oreo buttando via il resto. A volte scoppiavamo a ridere senza motivo guardandoci in faccia.

Lascio l’università, vado via da Bologna, ho bisogno di vedere il mondo prendere uno zaino e scoprire chi sono. Mi sento soffocare”. Furono le ultime parole che mi disse. Non potevo arrabbiarmi perché non mi aveva mai promesso nulla. Non potevo fermarlo perché gli volevo bene.

“Come mai, ma chi sarai per fare questo a me, notti intere ad aspettarti, ad aspettare te… E poi mi trovo a scrivere chilometri di lettere sperando di vederti ancora qui”. (883, Come mai)

Ho ancora un pacco di lettere che gli scrissi e che non gli spedii mai. Per mesi non mi alzai da letto. Ho creduto di morire. Molto tempo dopo, aprendo un libro trovai un suo biglietto: “Sei bella quando leggi, quando parli di Kant, sei bella perché se trovi un gatto abbandonato te lo porti a casa, sei bella perché ridi per delle sciocchezze, sei bella con quel ridicolo pigiama con gli orsetti. Sei bella perché quando fai sesso ti lasci andare e mi fai vedere le stelle. Sei bella perché ti ho insegnato mille volte a rollare una canna e tutte le volte fai dei pastrocchi. Sei bella anche con quell’orribile reggiseno di flanella addosso. Non permettere mai a nessuno di cambiarti. Rimani così, come sei. Perché sei bella come sei”.

Quando ho letto questo biglietto a distanza di dieci anni ho pianto tutte le lacrime del mondo.

So che sei da qualche parte in giro per il mondo dove ti mantieni facendo il musicista. Ogni tanto su youtube guardo i tuoi video. Hai ancora quei ricci spettinati e i maglioni oversize.

Non ho permesso a nessuno di cambiarmi. E indosso ancora pigiami con Paperino. Ma non ho mai imparato a rollare una canna. E scommetto che tu continui a mangiare solo il ripieno degli Oreo, buttando il resto. O almeno, mi piace pensarlo.

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