Simona Vinci: “Avere un figlio è avere paura”

Simona Vinci e, alle spalle, suo figlio

Coraggiosa, profonda, netta, lontanissima da ogni descrizione educolorata della maternità. Nel libro “Parla, mia paura” (Einaudi), Simona Vinci è esattamente così: senza timori né remore nel parlare di depressione e attacchi di panico, anche quando di mezzo c’è un figlio.
“La madre buona dice, la madre cattiva fa”, dice il direttore del Centro di salute mentale Zanolini di Bologna. Quante volte (e in quali occasioni) ha pensato di essere una cattiva madre?
“A dire la verità non l’ho mai pensato, di essere una cattiva madre. Ho pensato invece che i luoghi comuni che descrivono la buona madre fossero inadatti a me e che dovevo trovare il ‘mio’ modo di essere madre, quello che rendendo felice o quanto meno più serena me, avrebbe reso più felice anche mio figlio. Ho trovato il mio modo, lo aggiusto un po’ ogni giorno e prendo di continuo le misure. Una delle misure che fanno per me è non avere relazioni strette (Whatsapp e quant’altro) con le altre madri perché spesso le trovo completamente assorbite dall’idea che hanno del ruolo materno e incapaci di pensare o parlare d’altro. E questo, essendo io come sono, lo trovo agghiacciante, preferisco non entrarci proprio. Almeno, per ora è andata così”.
La sensazione di essere mangiata viva. Così descrivi il tuo stato di mamma di un bimbo piccolo. Credi che quella sensazione appartenga solo alle donne che vivono una forma depressiva o un disturbo psichico?
“No, credo che succeda a quasi tutte, forse a tutte, e probabilmente anche ai nuovi padri, quelli che deicano ai bambini molto più tempo di quanto non fosse immaginabile un paio di generazioni fa, soprattutto nei primi anni di vita dei bambini, quando i loro bisogni primari sono cogenti, incoercibili e ci sembra di non poter delegare mai niente a nessuno, neanche per un istante”.
La fatica che supera la gioia, il suo sentirsi vecchia. Prima di avere un figlio credeva che il suo arrivo l’avrebbe, al contrario, “ringiovanita”?
“Non mi ero posta una questione del genere, prima. Non ho desiderato figli fino circa ai 40 anni, è stato un aborto spontaneo di una gravidanza non cercata fino in fondo a farmi capire che il mio corpo e la mia testa desideravano questa cosa che non sapevo concedermi da un punto di vista razionale. Quindi ho lasciato fare al caso e alla natura e il figlio è arrivato subito. Mi ricordo che stavo a Mosca per un Salone del Libro e avevo sempre fame, pensavo solo ai buffet, alle tartine col caviale, alla colazione, e quando sono tornata a casa e ho fatto il test ho scoperto che ero incinta”.
In che misura ha vissuto il suo bambino come una gabbia, come una responsabilità dalla quale non potere più scappare?
“In certi momenti iniziali l’ho vissuta in modo molto pesante e doloroso anche per via di un parto difficile che mi ha messa fisicamente ko per molti mesi, ma ho avuto la fortuna di poter contare su un padre presente e comprensivo che mi ha aiutata moltissimo senza giudicarmi”.
“Avere un figlio è avere paura”. Spesso si parla delle paure che le madri hanno rispetto ai figli. Poche volte, invece, si parla della paura che le madri di figli piccoli hanno rispetto a se stesse: di non farcela, di non sopravvivere. Quale dominava, in lei?
“La seconda, ma in relazione alla prima. Se hai impulsi di morte quando sei responsabile di un bambino piccolo ti senti doppiamente in colpa all’idea che la tua disperazione potrebbe privarlo della tua presenza”.
La benedizione del latte in polvere, del Dostinex, del biberon. Quanto le è pesata la nuova retorica sulla maternità (l’allattamento, il contatto..) in quel periodo?
“Mi è pesata molto ma io schivo da sempre la retorica, in ogni campo della vita, per indole. E quindi, sinceramente, me ne sono anche un po’ fregata. Le cose più fastidiose me le sono sentite dire da persone molto vicine, cose del tipo ‘ma non sei felice adesso che hai il tuo bambino?’. Sì, certo che ero felice, però ero anche in trappola e stavo scrivendo un romanzo che dovevo a tutti costi finire: il mio lavoro e la scrittura per me sono fondamentali non soltanto per questioni economiche ma per la definizione della mia identità. Io sono quella donna che legge, scrive e viaggia, quella donna che vive anche altre vite. Adesso che mio figlio quasi sei anni e può cominciare a condividere questo mondo ‘altro’ con me è meraviglioso”.
Come ha superato l’angoscia di restare incinta che l’aveva accompagnata negli anni precedenti la maternità?
“È stato il corpo a decidere per me. Mi sono abbandonata, lasciata andare a un imperativo che non era più possibile rimandare. Il corpo ha scelto e la testa ha dovuto imparare ad adattarsi”.
Descrivere le nostre gabbie di dolore e disagio psicologico con le parole migliori che abbiamo. Il suo libro si chiude con una speranza, con un tentativo di vita e rinascita. Solo attraverso la scrittura lo riesce a compiere?
“In quel passaggio in particolare mi riferisco anche alle parole pronunciate, le parole dette, al dialogo tra la persone, anche tra sconosciuti. Le parole sono fondamentali, fondanti, bisogna usarle con cautela, con cognizione di causa, sempre. Parole violente, ad esempi,o innescano comportamenti violenti ed educare i bambini all’uso delle parole è fondamentale. Per quanto mi riguarda direttamente, la parola scritta (da me e soprattutto da altri e quindi ‘letta’) essendo da sempre la base sulla quale ho edificato la mia vita, ha un ruolo particolarmente importante. È il mio modo di stare nelle relazioni, di creare spazi da abitare, spazi che siano miei e di altri, i lettori ad esempio”.

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