Aveva nove anni e mezzo, Teo, quando davanti alla domanda “qual è il senso della vita?”, rispose “è trovare una femmina e riprodursi per mantenere la specie”. Di frasi geniali e precoci, Francesca Magni, ne ha collezionate moltissime. Ed è stata proprio l’intelligenza acuta di suo figlio a impedirle di capire che, dietro l’infelicità che provava a scuola, la rabbia e la frustrazione, c’era un problema: la dislessia. Giornalista di Casa Facile, Francesca è da ieri in libreria con “Il bambino che disegnava parole. Un viaggio verso l’isola della dislessia e una mappa per scoprirne i tesori” (Giunti), una storia ispirata alla sua famiglia, quindi verosimile, ma romanzata. Tutto è iniziato sul blog “Letto fra noi” e, nel giro di due mesi, è diventato un libro.
Sono stati anni di fatiche e frustrazioni ma anche di arricchimento quelli prima della diagnosi: “Passare i pomeriggi con mio figlio era stressante anche per il conflitto che vivevo con mio marito, che mi considerava troppo protettiva, e con la mia secondogenita, che avendo solo un anno in meno del primo aveva bisogno di attenzioni. Ma sono stati anni in cui ho capito come funzionava il cervello di mio figlio. E, incredibilmente, anche quello di mio marito, che si è poi scoperto dislessico. La mia battaglia ha lo scopo di risparmiare sofferenza ai figli, spesso non capiti dalla scuola, e migliorare le relazioni umane: sebbene conosca mio marito da 18 anni, posso dire di conoscerlo davvero solo da tre. Sapere come una persona ragiona e quali sono i suoi punti di forza e debolezza aiuta a relazionarcisi in modo migliore”.
Nel caso del romanzo di Francesca, la diagnosi arriva tardissimo, in seconda media ed è, per tutta la famiglia, una sorta di liberazione: “Credo sia sempre meglio sapere che non sapere. Dare un nome alla cose è importante, permette poi di organizzarsi di conseguenza. Avere per le mani i pezzi di un puzzle che non sai comporre, invece, è frustrante. Il senso di colpa, d’altro canto, a me è rimasto: faccio la giornalista, avevo tutti gli strumenti per capire che le difficoltà di mio figlio non erano da interpretare in chiave psicologica, che c’era qualcosa che non sapevamo. Eppure, ci siamo trascinati il problema. Essere dislessici ma non essere riconosciuti tali – e aiutati per questo – equivale a sentirsi della nullità, a vivere sulla propria pelle la frustrazione di non riuscire a fare qualcosa, come leggere, che agli altri viene così normale”.
“Ci pensi, mamma – dice a un tratto Teo – che credevo di essere scemo?”. Eppure Teo disegna benissimo, eccelle nello sport, ha un orecchio che neanche un musicista: “Nelle persone dislessiche è tipico riscontrare picchi di intelligenza. Peccato che le conoscenze scientifiche non siano diventate patrimonio di tutti. E spesso la scuola, che della dislessia e degli altri disturbi dell’apprendimento vive le ricadute pratiche, si trova in difficoltà. Io non metto in croce gli insegnanti, i dislessici a volte dicono cose all’apparenza sceme o insensate. Eppure il mio personaggio, così come mio figlio, alla fine va al liceo classico. Perché la passione per la letteratura e la filosofia è dura da assecondare se si scelgono altre scuole. Purtroppo non esiste la possibilità di fare percorsi di studio personalizzati. Il greco va imparato per forza a un certo livello, così come le altre materie”.
Per fortuna, anche se non ancora promossi e utilizzati al meglio, esistono gli strumenti compensativi: “Un tabù da rompere. Tutti noi, nella vita, li usiamo: pensiamo all’auto per raggiungere prima il posto di lavoro, alla lavatrice per evitare di fare il bucato a mano. Chiaro, sono strumenti che vanno tarati sulla persona. La dislessia non è la stessa per tutti i dislessici. E c’è chi ha bisogno della calcolatrice solo per certi esercizi, chi necessita che un problema di matematica venga diviso in sequenza, chi va a nozze con il sintetizzatore vocale e studia solo con gli audiolibri. Poi, ognuno trova il suo: c’è chi si aiuta con il disegno, c’è chi impara ripetendo la lezione mentre sale le scale. La battaglia sta nel fare capire agli insegnanti che non si tratta di metodi pietosi né di facilitatori per alunni svogliati”.
Ma anche nell’affermare i diritti dei dislessici, ben oltre la scuola: “I dislessici lo sono per tuta la vita. Non ti daranno più del somaro, non prenderai più due. Ma forse farai scelte professionali che in realtà sono ripieghi o fughe da ambiti in cui sei stato a disagio. Insomma, capire la dislessia e migliorare la vita delle persone che ne sono affette è fondamentale. Spero che questa storia possa in qualche modo dare un contributo”.
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