Nove di sera, tavolo in cucina.
Il piccolo di casa, quasi tre anni, gioca con me a memory.
Un memory un po’ nuovo, dove le figure da associare non sono esattamente identiche ma differiscono per genere: maestro e maestra, fioraio e fioraia, casalingo e casalinga.

Non mi sembra così sconvolto, il piccolo.
Non mi pare particolarmente turbata nemmeno la sorella, nove anni, che fa irruzione in cucina chiedendo di aggregarsi ed esultando perché al primo colpo – fortuna – ha trovato il manager e la manager. Poi, subito dopo, il pilota e la pilota.

“Questo è il famoso gioco che ha fatto polemica a Trieste”, dico al papà che stasera non ne becca una, mentre il piccolo ha fatto il gruzzoletto di coppie di carte.
“Cioè?”.
“Ma dai, la polemica sul gender”:
Mi guarda inorridito.
“E cosa ci sarebbe, da polemizzare?”
“Alcuni sostengono che ci sia l’ombra del gender dietro un gioco che insegna ai bambini e alle bambine che potranno fare, nella vita, il mestiere che vorranno, a prescindere che siano maschi o femmine”.
Lui scoppia a ridere.

Pochi giorni fa rideva – per non piangere – anche Lucia Beltramini, la psicoterapeuta che il “Gioco del rispetto” lo ha inventato, non mettendo in conto che le sarebbe arrivato addosso un polverone. 

Va beh, continuiamo a giocare.