A lezione di parolacce: viva la maestra!

A casa nostra da qualche settimana circola una nuova parola. Potrete cercarla sullo Zingarelli o sul Devoto-Oli, chiedere aiuto a Internet o a Siri, l’assistente personale “intelligente” installata sul telefono: non la troverete.

Il neologismo in questione, farina del sacco della quasi-adolescente o frutto di un brain storming con i compagni di classe (terza elementare) è cazeta. Non significa casetta, non è un attrezzo, non è il nome di una band.

Il cazeta è proprio quella cosa là, basta togliere il suffisso -eta e aggiungere una zeta e una o per risolvere l’arcano.

“Come mai, da un po’ di tempo, dici cazeta?”
“Perché ca…, mamma, non si può dire”.
“E quando mai senti il bisogno di usare la parola ca…?”.
“Beh, può succedere. Magari quando sono arrabbiata. Con cazeta risolvi ogni problema. Puoi dirlo quante volte vuoi. Pochi capiscono. Nessuno si offende. Non ti prendi una sgridata. Facile, no?”.

Del resto la questione parolacce quest’anno è più che mai attuale.

La maestra, all’ultimo colloquio, l’ha inserita nell’ordine del giorno delle cose da comunicarmi:

“Non è il caso di sua figlia, stia tranquilla. Ma quest’anno un bel gruppo di bambini ha iniziato a dire molte parolacce, a sproposito. Tanto che mi sono sentita costretta a fare una lezione sul tema. Perché spesso mica lo sanno, cosa significano“.

Un mito.

Perché più lo rendi un tabù, più un argomento diventa un facile oggetto di trasgressione.
Anche se è difficile prendere una posizione netta, soprattutto quando i bambini sono più piccoli.

Il treenne di casa, l’altro giorno, si è svegliato sfoderando il sinonimo di cavolata. Me l’ha riferito mia mamma, facendomi anche un po’ inorridire. Ecco, in quel caso è bene affrontare subito il discorso come ha fatto la maestra o fare finta di niente e iniziare a fischiettare? Dilemma.

A lui, che ha la doppia zeta nel cognome, la parolaccia delle parolacce gli esce così bene.

 

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