Marina Ricci: “Quando in India adottai Govindo, gravemente malato”

Marina Ricci
Marina Ricci

“A tutti noi, nella vita, capitano delle opportunità. A me è arrivata una richiesta particolare: quella di adottare un bambino indiano, orfano, gravemente malato”. Marina Ricci, ex giornalista del Tg 5, aveva già quattro figli di sei, nove, dodici e quattordici anni quando nel novembre del 1996, inviata a Calcutta per documentare le condizioni di salute di Madre Teresa, che era stata da poco ricoverata, entrò nell’orfanotrofio Shishu Bavan incontrando Govindo, un bimbo di circa cinque anni “che ne dimostrava tre, non parlava e non camminava”. Un bimbo che, dopo un anno e mezzo, è arrivato nella sua famiglia, in Italia, per poi morire all’età di diciotto anni. Nel libro “Govindo. Il dono di Madre Teresa” (San Paolo), che presenterà questa sera alle 21 nella Chiesa di San Giuliano Martire a Longastrino Marina porterà la sua testimonianza di amore incondizionato. E del suo riavvicinamento alla fede.
Marina, che ricordo ha di quella richiesta delle suore di Madre Teresa di adottare un bimbo?
“La domanda mi azzerò. Avevo quattro figli, un lavoro impegnativo. Non mi passava nemmeno per l’anticamera l’idea di prendere in adozione un bimbo handicappato. A differenza di mio marito Tommaso, che è iper razionale, sono molto emotiva. Ma il paradosso fu che lui, davanti alla proposta, non chiuse le porte, anzi. E io, di fronte alla sua apertura, ripensai al primo bambino che avevo visto nell’orfanotrofio, Govindo, che probabilmente aveva scelto me”.
govindoAveva già un percorso di fede, alle spalle?
“Venivo da una famiglia che, come la maggior parte, mi aveva batezzata e fatto prendere i sacramenti. Ma non avevo ricevuto un’educazione così cattolica. Durante gli anni dell’Università mi ero riavvicinata al Cristianesimo, questo sì. Ma è stata l’esperienza in India a portarmi verso Gesù Cristo in modo direi definitivo”.
Ci furono momenti di sconforto, nell’iter per l’adozione?
“Sì, il primo fu la diagnosi precisa: Govindo aveva una paralisi cerebrale spastica e una microcefalia. Condizioni a dir poco drastiche. Ma anche nei periodi in cui il processo di adozione subiva delle battute d’arresto, erano i miei figli a darmi la carica. Si erano ormai affezionati all’idea di un altro fratello. E la sensazione che l’arrivo di Govindo avrebbe fatto bene a tutti noi, regalandoci un’opportunità nuova di dare e ricevere amore, si faceva sempre più forte. E così si è rivelata, nei fatti, nonostante la netta opposizione degli amici, che a più voci ci avevano sconsigliato di compiere quel passo”.
Qual è stato l’impatto di Govindo, sulle vostre vite?
“Il più naturale possibile. Io e mio marito abbiamo continuato a lavorare, facendoci aiutare. I nostri figli sono cresciuti come se Govindo ci fosse sempre stato. E quando è morto, nel 2010, nel fare osservare a una delle mie figlie che avremmo avuto molto tempo solo per noi, lei mi rispose: ‘per fare cosa?’. La nostra non è una storia eroica, è solo la storia di una possibilità. A noi, semplicemente, è successa questa. Si può essere cattolici o no, non è questo che importa. Da Govindo abbiamo imparato che quello che in partenza sembra un fallimento, può invece riservare incredibili sorprese”.

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